Centinaia di migliaia di persone, da tutto il mondo, si
ritrovarono a contestare il modello di sviluppo allora presentato come
vincente: mercatismo, finanziarizzazione, mercificazione di lavoro, valori e
beni comuni, neoliberismo, privatizzazioni, consumo e profitto assunti a dogmi
assoluti, capitalismo globale e globalizzante, tecnocrazia.Di quelle persone, si diceva che non capivano nulla, che non
erano al passo con i tempi, che erano dei poveri idioti, sciocchi perdenti.
Furono derisi, vilipesi, presi a manganellate, picchiati, in alcuni casi
torturati. La repressione fu ordinata, sollecitata, tollerata, condivisa o
giustificata da buona parte della classe politica, complice esecutrice o inetta
spettatrice del “pensiero unico dominante”. Fu condivisa o giustificata anche
da buona parte dell’opinione pubblica.
A distanza di anni, in tanti vanno ora scoprendo i danni di
quel “pensiero unico dominante”, di quelle logiche mercatiste. Si torna a
protestare ora per le strade, perché si viene toccati nel vivo dei propri
interessi e diritti.
Lo si scopre quando cancellano reparti ospedalieri o scuole,
quando chiudono fabbriche o tagliano posti di lavoro, pensioni e stipendi,
quando sopprimono uffici, tribunali e servizi pubblici, quando privatizzano
beni e spazi comuni. Questi, però, non hanno una natura episodica e
parcellizzata, non sono eventi scollegati. Non possono essere affrontati senza
essere consapevoli che sono tra loro connessi e si tengono almeno nella matrice
causale. Il processo di impoverimento in corso, infatti, è solo l’effetto di
quel modello di sviluppo, il frutto maturo di quel “pensiero unico dominante”.
Non è una crisi congiunturale.
Quelle centinaia di migliaia di giovani e di persone, a
Genova, avevano visto giusto, avevano ragione quando dicevano e avvertivano che
“un altro mondo è possibile” indicandone le coordinate, ma nessuno, al potere
allora come oggi, si sforzerà di ammetterlo. Anzi, (anche i più convinti
sostenitori di quel “pensiero unico dominante”) li vediamo (opportunisticamente
o perché questo è lo spirito del tempo) interpretare l’insofferenza e la
frustrazione delle popolazioni e delle persone, li vediamo coinvolti in
sollevazioni popolari e in marcia: contro l’imu, contro l’iva, contro i tagli di
reparti di ospedali e di fabbriche, contro la soppressione di sezioni di scuola
o di tribunali, indifferenti alle loro evidenti contraddizioni e alla
responsabilità delle conseguenze di precise politiche da loro deliberate e
attuate, alla necessità di prendere atto degli effetti distruttivi del modello
di sviluppo che loro hanno tenacemente perseguito, sostenuto e difeso negli
anni scorsi.
Si sa, la politica e il governo della cosa pubblica sono i
settori in cui, più di altri, non vale il principio della responsabilità:
nessuno risponde, tanto la memoria degli elettori è corta e basta indossare
l’abito giusto ad ogni nuova stagione.
Un dato è certo: i ragazzi e le persone che riempirono le
strade di Genova (e, prima, quelle di Seattle nel 1999, di Praga nel 2000, di
Napoli nel 2001) avevano ragione. Fresche, colorate, vitali, attuali, le loro
speranze e idee. Al cospetto, i tenutari del potere – piccolo o grande, statale
o locale, fisso e immutabile nei suoi riti e anche nei volti (almeno da noi in
Italia, a tutti i livelli) – appaiono ora come vecchi compagni di classe,
ingrigiti e invecchiati, pronti a raccontarsi e reinventarsi in nuovi ruoli di
fantasia durante un’ultima e improbabile giornata di scuola.
I ragazzi e le persone che riempirono le strade di Genova
avevano ragione. Ora, a distanza di 12 anni, sarebbe onesto almeno ammetterlo.
Solo da qui, da questa presa di coscienza, dal ripensamento critico del modello
di sviluppo di questi ultimi decenni, dal suo superamento, è possibile avviare
il cambiamento.
Altamura, 20 luglio 2013
ENZO COLONNA