Furbetti o citrulli nel Botteghino dei Ds?



“La vicenda Unipol dovrebbe spingere Fassino a dare un taglio netto a tutto l’armamentario che rende sgradevole la sinistra italiana.”   [dall’ultimo numero del settimanale L’espresso (clicca qui per l’edizione online) in edicola (settimana 2-8 gennaio 2006) riportiamo la nota del Bestiario di Giampaolo Pansa].


“… eppure la denuncia di quel conflitto di interessi, la sua trasparenza nel dibattito pubblico, oggi ci permette di giudicare il suo operato come presidente del Consiglio e di concludere che sì, le leggi da cui ha tratto vantaggio sono passate in un batter d’occhio e le riforme necessarie al paese non sono neanche state tentate. Saremo nelle condizioni di esprimere un simile giudizio, fra cinque anni, sul ministro Fassino, sul ministro D’Alema, sul presidente del Consiglio Prodi? Avremo conoscenze sufficienti per valutare il loro operato? Da oggi qualche elemento in più lo abbiamo. Quanto meno l’opinione pubblica dovrebbe avere modo di conoscere l’uso politico che i Ds fanno del denaro che amministrano.”   [da Notizie Radicali, notiziario telematico di Radicali Italiani (accedi cliccando qui), del 5 gennaio 2006, riportiamo l’editoriale di Federico Punzi]


 


vogliamo un’adeguata spiegazione politica di quella provvista generosa di denari messa insieme in quote percentuali identiche da Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti. Cinquanta milioni di euri sono cento miliardi di vecchie lire. Qualcosa di simile alla provvista Enimont. Qualcosa di molto diverso da un cumulo di consulenze finanziarie. Qualcosa di molto diverso da generici ‘arricchimenti personali’.” [dal Foglio (da qui per l’edizione online) del 30 dicembre 2005, riportiamo l’editoriale contro cui D’Alema ha annunciato querela]


 


ma c’è ancora qualcosa da aggiungere in attesa che la Direzione Ds si pronunci l’11 gennaio. Le questioni che secondo me meritano un chiarimento ulteriore sono almeno tre: quella della diversità  della sinistra, quella del fuoco incrociato contro i Ds e, l’ultima, sulla emendabilità  del capitalismo italiano.” [dalla Repubblica (da cui per l’edizione online) dell’8 gennaio 2006, riportiamo l’editoriale di Eugenio Scalfari]


 


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Bestiario di Giampaolo Pansa




FURBETTI O CITRULLI NEL BOTTEGHINO DEI DS?


 


Ci sono soltanto furbetti al Botteghino della Quercia, come ha sostenuto su ‘L’espresso’ Claudio Rinaldi? Oppure ci sono anche tanti citrulli, sia al vertice del partito che fra i big di provincia, quelli che poi comandano davvero, ben più che i Fassino e i D’Alema? Sono per la seconda tesi, confortato da un’esperienza recente che mi ha portato a presentare un mio libro in molte città  dell’Italia del nord, quasi tutte governate dal centro-sinistra e dove i Ds sono di gran lunga il partito più forte.


Quel che ho visto mi fa sorridere di sardonica soddisfazione. In tanti posti i Ds, a cominciare dai sindaci e dai dirigenti delle federazioni, hanno cercato di farmi il vuoto attorno, con il pretesto falso che ‘denigravo la Resistenza’. Si affannavano contro un giornalista e non si accorgevano che stava per cadergli sulla testa la maxi-tegola dell’Unipol. Il caso più grottesco è quello di Reggio Emilia. A parte l’Associazione riformista Valdo Magnani, la strapotente burocrazia della Quercia si è fatta venire il mal di stomaco per il sottoscritto. Nel frattempo, si scopriva che nella città  rossa si era infiltrata l’ndrangheta, con tanto di arresti. E che uno dei loro eccellenti, l’Ivano Sacchetti, spalla del compagno Gianni Consorte, stava per essere incriminato e ruzzolare dal piedistallo.


La presenza sovrabbondante di citrulli è poi confermata dalla convinzione che, uscita di scena la diabolica coppia Gianni & Ivano, tutto possa ritornare a posto nell’Unipol e nell’arcipelago delle cooperative rosse. Ma questa è una pia illusione. Per cominciare, rimane l’enigma di quei 50 o 48 milioni di euro, incassati all’estero e su conti cifrati, per presunte parcelle professionali. È una somma enorme, quasi 100 miliardi di vecchie lire, che obbliga a due domande. Davvero il vertice della Lega delle cooperative non ne sapeva niente di niente, come ha dichiarato alla ‘Stampa’ il presidente Giuliano Poletti? E davvero quella montagna di soldi era destinata soltanto a fare di Gianni & Ivano due nababbi di provincia?


Queste domande generano altri quesiti che è naturale proporsi. Parte di quella iper-somma era riservata ad altre persone e per altri scopi? È possibile che si trattasse di una super-tangentona da dirottare, per esempio, verso il Botteghino o i suoi dintorni? Vannino Chiti, il solo dirigente rimasto a fare la guardia al bidone di via Nazionale e dunque l’unico a dover parlare nelle vacanze di fine d’anno, ha replicato con sdegno: “Per l’onore del partito, non tolleriamo schizzi di fango”. Forse avrà  ragione, ma l’anatema contro gli schizzi di fango l’ho sentito molte volte nei due anni ruggenti di Tangentopoli. E quasi sempre si scopriva che erano schizzi di soldi, e spesso schizzi grossi e grassi.


Anche l’arcipelago delle Coop rosse si presta agli stessi dubbi. L’elettore critico di sinistra, quello pieno di se e di ma, si chiede: è possibile che tutto si riduca ai due presunti geni del male, con quelle maschere facciali da commedia dell’arte, il tronfio Consorte e lo spiritato Sacchetti? Oppure c’è dell’altro? La procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati l’Unipol per non aver saputo prevenire i reati che sarebbero stati commessi da suoi dirigenti. Ma l’elettore malmostoso va più in là . Intravede troppi miliardi in nero, troppe tasse non pagate, troppi guadagni in Borsa grazie a manovre illecite, troppe alleanze indecenti rispetto alla conclamata etica cooperativa. E scopre una grande fogna, stavolta non in casa del Berlusca, bensì in casa propria.


In questa pozza nauseabonda affonda per sempre ‘il complesso dei migliori’, come l’ha chiamato il sociologo Luca Ricolfi. Ossia la convinzione della sinistra di essere eticamente migliore della destra, una sicurezza ferrea e ben radicata in gran parte della nomenklatura diessina e in tanti dei suoi elettori. Ma dal male può venire un bene. La tragedia Unipol dovrebbe spingere i leader della Quercia più accorti e umani, e per primo Piero Fassino, a dare un taglio a tutto l’armamentario che spesso rende sgradevole (e antipatica, per dirla con Ricolfi) la sinistra italiana.


Lo conosciamo questo groviglio di vizi pubblici, per averlo incontrato e descritto molte volte. Un fenomenale complesso di superiorità , da sbattere in faccia ad alleati e avversari. La spocchia personale. La puzza sotto il naso. L’irrisione e l’esclusione di chi non sta al gioco. La sicurezza arrogante di essere insuperabili, come il tonno dello spot, nel governo, nell’amministrazione, nella manovra politica, nell’analisi intellettuale, nell’onestà . Il considerare ogni critica un complotto orchestrato da una Spectre nemica del partito.


Ecco la robaccia che trasforma un dirigente in un ras. Ma la Quercia può essere un partito di ras? Penso proprio di no. I ras stancano la gente e allontanano i voti. Furbetti e citrulli, attenti a non stancare. Favorite soltanto la vostra rovina. E quella della vostra parrocchia.


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Editoriale di Notizie Radicali del 5 gennaio2006.


 


IL NOI E IL VOI DI FASSINO


di Federico Punzi


 


Sta tutto in quelle esitazioni di Piero Fassino tra il «noi» e il «voi» nel colloquio telefonico con Consorte, riportato da il Giornale, l’intreccio tra affari e politica. La mattina del 18 luglio, alle 12, Unipol comunica al mercato che si prepara a lanciare un’Opa obbligatoria su Bnl in contanti a 2,7 euro. L’Ansa lancia la notizia alle 12.21. Dopo un’ora Consorte prima si sente tre volte con il senatore dei Ds Latorre, già  assistente di D’Alema, poi chiama Fassino, che tra l’altro aveva sentito proprio la sera prima alle 23.30. «E allora siamo padroni di una banca?», esordisce il segretario Ds, per poi correggersi nel successivo scambio di battute: «Siete voi i padroni della banca, io non c’entro niente». Poi, i consigli di Fassino a Consorte: «Prima portiamo a casa tutto». Infine, di nuovo il lapsus noi-voi: «Voi avete fatto un’operazione di mercato, quello che ho sempre sostenuto io. Industriale». Consorte recepisce: «Industriale e di mercato». Fassino: «Esatto, ora dovete comportarvi bene. Preoccupatevi bene di come comunicate in positivo il piano industriale… Perché il problema adesso è dimostrare che noi abbiamo… che voi avete un piano industriale». Noi o voi? Neanche Fassino sa più distinguere.


Sulla pubblicazione di intercettazioni e sul loro uso politico non c’è altro da aggiungere alle parole di Gaetano Pecorella (Forza Italia):


«O sono intercettazioni di rilevanza probatoria, e quindi c’è il rischio che la loro diffusione pregiudichi le indagini in corso, oppure non hanno rilevanza, e allora diventano un modo per delegittimare le persone che nulla di illecito hanno commesso. Si tratta di atti processuali che non possono essere pubblicati, checché ne pensi qualcuno. Pur non essendo segreti, perché sono conosciuti dalle parti alle quali sono stati depositati, sono atti sempre sottoposti al divieto di pubblicazione. (…) Mi meraviglio che i magistrati non si attivino mai su questo».


Ineccepibile. Quante volte però, e per quanti anni, i Ds hanno ignorato il problema delle gogne mediatiche e in particolare della pubblicazione di intercettazioni sui giornali, quando non se ne sono addirittura avvalsi nel confronto politico? Perché hanno ritenuto di non diffondere note simili a quella, durissima, di ieri, anche in merito ai molti casi del passato? Hanno atteso finché non fossero direttamente coinvolti. E questa volta, guarda caso, il cronista viene indagato e il ministro della Giustizia Castelli, in difesa delle prerogative dei parlamentari, manda gli ispettori alla procura di Milano per indagare sulla divulgazione delle intercettazioni. Al suo posto il ministro Fassino avrebbe fatto lo stesso se le intercettazioni avessero riguardato il segretario del maggior partito del centrodestra? C’è da dubitarne.


Il fatto singolare è che queste intercettazioni sembrano scagionare totalmente Fassino e i vertici Ds. Non si ravvisa nessuna, neppur vaga, ipotesi di illecito o scorrettezza. Lo stesso Fassino, ha ricordato Battista sul Corriere, già  quest’estate chiedeva: «Vengano resi noti i testi delle telefonate, così tutti ne conosceranno il contenuto». Accontentato. Perché allora queste reazioni stizzite se le intercettazioni dimostrano che non c’è niente da nascondere e di cui vergognarsi?


L’oggetto da nascondere, e di cui vergognarsi, non è il presunto illecito, ma l’esistenza stessa di interessi da rappresentare. Ebbene sì, anche i Ds rappresentano degli interessi. Niente di male in una democrazia liberale, si direbbe. Il corto circuito avviene quando i rappresentanti di alcuni di questi interessi non solo pretendono, negandone l’esistenza, di darla a bere ai loro elettori, ma anche di ergersi a censori morali degli interessi altrui. Il motivo delle veementi reazioni è che i Ds hanno fatto credere di essere ciò che non sono, ciò che non possono essere, e anzi, ciò che non sarebbe neanche giusto chiedere che fossero. L’hanno fatto per mero opportunismo e hanno avuto torto. Hanno inventato una questione morale per trarne vantaggio politico e oggi gli si ritorce contro. Oggi quel castello di carte viene giù e gli ingannati, i disillusi, diciamo, per semplificare, i lettori dell’Unità , scoprono che la politica è confronto/scontro regolato di interessi legittimi. Che non esistono partiti, uomini politici, che non rappresentano degli interessi.


Il problema di oggi non è fare la morale ai Ds, ma è che fino a oggi i Ds hanno fatto la morale a tutti gli altri. Gli interessi in gioco devono confrontarsi alla luce del sole e ad armi pari. A scandalizzare non è l’intreccio tra la più grande forza della sinistra e il mondo degli affari, ma la pretesa di negarne l’esistenza. Per cui i Ds hanno i loro interessi da tutelare, ma non si deve sapere troppo in giro. Anzi, si sa, ma non si dice. E Bersani in tv, un po’ patetico un po’ irritante, negava l’evidenza.


Ha ragione Galli Dellla Loggia quando osserva che «l’idea del complotto è la cartina al tornasole della prospettiva radicalmente antiliberale in cui si muovono i nemici dei poteri forti». Ma ha ancora più ragione Panebianco a scrivere che «quando si sente parlare troppo di questione morale significa che un gruppo politico sta brandendo l’arma “etica” per colpirne un altro (con lo scopo, in genere, di sostituirsi ad esso e fare più o meno le stesse cose)…» e che «ciò che distingue destra e sinistra riguard[a] solo gli interessi rappresentati e i progetti politici, non la morale». Dunque Fassino e i Ds oggi vanno difesi da chi vorrebbe brandire contro di loro la questione morale, ma non vanno più coperti nel loro gioco di presentarsi come i diversi, i moralmente superiori che fanno politica svincolati da ogni interesse.


C’è stato in tutti questi anni un unico, enorme, conflitto di interessi, quello di Silvio Berlusconi. Eppure la denuncia di quel conflitto di interessi, la sua trasparenza nel dibattito pubblico, oggi ci permette di giudicare il suo operato come presidente del Consiglio e di concludere che sì, le leggi da cui ha tratto vantaggio sono passate in un batter d’occhio e le riforme necessarie al paese non sono neanche state tentate. Saremo nelle condizioni di esprimere un simile giudizio, fra cinque anni, sul ministro Fassino, sul ministro D’Alema, sul presidente del Consiglio Prodi? Avremo conoscenze sufficienti per valutare il loro operato? Da oggi qualche elemento in più lo abbiamo.


Quanto meno l’opinione pubblica dovrebbe avere modo di conoscere l’uso politico che i Ds fanno del denaro che amministrano. Dalle coop agli enti pubblici, dai comuni alle università , tutti noi prima o dopo abbiamo avuto una qualche esperienza di quel particolare modo dei Ds di creare reti di clientele e meccanismi di fidelizzazione grazie all’elargizione di consulenze, appalti, posti di lavoro. Sappiamo, per esempio, come amministrano i Veltroni e i Bassolino, quali siano i criteri con cui vengono distribuite le risorse all’interno delle università . Sappiamo chi scrive le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti. Nulla di illegale, forse, ma tanti casi politici del più vasto caso Italia, che ci ricordano l’esistenza di «cose pessime per il costume delle nostre sensibilità  anche se di per loro non costituiscono reato»


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Editoriale del Foglio del 30 dicembre 2005


 


Massimo D’Alema, presidente dei Ds, ha annunciato querela contro il direttore del Foglio Giuliano Ferrara. Lo dice lo stesso presidente dei Democratici di sinistra all’interno del forum pubblicato oggi sull’Unità , in riferimento alle “gravissime accuse”? rilevate nell’editoriale pubblicato sul Foglio lo scorso 30 dicembre, in cui il direttore del Foglio chiedeva al presidente della Quercia una spiegazione sui 50 milioni di Consorte. “Ma mi pare ”“ aggiunge D’Alema ”“ che queste insinuazioni non siano riuscite a far breccia. E’ problema di Giovanni Consorte dimostrare se le relazioni di carattere affaristico e finanziario che egli ha avuto personalmente con Gnutti siano lecite o illecite. Ed è un tema su cui si pronuncerà  la magistratura”?. Riportiamo l’editoriale del Foglio chiamato in causa.


 


 


UNA DOMANDA DA 50 MILIONI DI EURI



 


C’è un partito del Corriere della Sera e del suo patto di sindacato? E’ in corso un’opa segreta dei poteri forti finanziari sul partito democratico e sui futuri equilibri di governo in caso di vittoria del centrosinistra? A questa scalata partecipa anche il gruppo di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e tessera n° 1 che designa pubblicamente i leader e gli amministratori del nuovo partito? Negli organici del plotone d’assalto stanno Confindustria, editrice del Sole 24 Ore, e la Fiat con la Stampa? E’ vero che l’attacco in corso è anche contro l’autonomia della politica, e dunque colpisce allo stesso modo Berlusconi in una prefigurazione dell’eterno ritorno dell’identico, cioè la famosa nuova Tangentopoli? E’ questa l’origine dell’offensiva mediatica e giudiziaria che ha travolto Fiorani, Fazio, il vertice dell’Unipol e ora anche la compagnia assicurativa, e poi Gnutti il raider, e Ricucci e Coppola e insomma i cosiddetti immobiliaristi? A queste domande, più o meno apertamente, i dalemiani rispondono di sì. La novità  di ieri è che anche due numeri due ex aequo di Berlusconi, Sandro Bondi che dice a D’Alema “liberiamoci insieme di questi tecnocrati”? e Bonaiuti che denuncia l’indegna voglia di politica del Corriere, tendono a rispondere nello stesso modo.
A noi piacciono gli outsider, che quando non siano rubagalline funzionano da sempre nella storia come elementi di rinnovamento. Ci piace l’autonomia della politica fino al punto che per difenderla abbiamo abbracciato per anni l’antipolitica, unico antidoto a un’universale soggezione al partito mediatico-giudiziario e al suo circo nell’Italia degli anni Novanta e seguenti. Ma non ci piace essere presi per il culo.
Con il massimo rispetto per le persone e per il loro diritto all’immagine, specie per quelle persone (e gruppi e partiti e movimenti) che non lo hanno riconosciuto agli altri, osserviamo dunque che prima di partire in crociata contro la galassia del nord, contro il Corriere e la regia politica di Paolo Mieli, vogliamo un’adeguata spiegazione politica di quella provvista generosa di denari messa insieme in quote percentuali identiche da Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti. Cinquanta milioni di euri sono cento miliardi di vecchie lire. Qualcosa di simile alla provvista Enimont. Qualcosa di molto diverso da un cumulo di consulenze finanziarie. Qualcosa di molto diverso da generici “arricchimenti personali”?. Questi soldi hanno cominciato a passare di mano quando il premier di sinistra D’Alema sosteneva i “capitani coraggiosi”? dell’opa Telecom, quando l’ex senatore della sinistra indipendente e avvocato d’affari di grido della Milano che conta, l’avvocato Guido Rossi, replicò a quella affermazione con una battuta celebre e temeraria, ma mai spiegata bene né dal mittente né dal destinatario: “A Palazzo Chigi funziona l’unica merchant bank in cui non si parla l’inglese”?.
D’Alema e i suoi hanno sostenuto i capitani coraggiosi e gli ex capi delle cooperative ora dimissionari, e hanno in modo obliquo segnalato la loro contiguità  e solidarietà  politica a un personale di gestione di banche, assicurazioni popolari, gruzzoli mobiliari e patrimoni immobiliari ora sotto inchiesta per diversi reati. Sono stati politicamente parte di una rete amica e trasversale, di soldi e di potere, che ora viene smantellata da loro vecchie conoscenze, primo fra tutti il grande inquisitore finanziario Francesco Greco. E quella provvista finanziaria, insieme con una scalata bancaria collegata in modo opaco a grandi maneggi in azioni Rcs e a una complicata partita giocata intorno all’Antonveneta e alla Banca d’Italia, non è uno di quei dettagli che si possano cancellare ricorrendo alla denuncia di un grande disegno di annientamento della forza politica costituita dagli ex comunisti.
Non ci accontentiamo dei silenzi di Prodi, delle denunce a tempo di Parisi, del solito passo laterale di Amato, delle richieste di autocritica di Napolitano, della difesa pelosa dei diritti del mondo cooperativo, dell’interpretazione dell’ultima dichiarazione di Veltroni o di Rutelli o di De Benedetti, dei mille fumi e fuochi fatui che ci danzano davanti. Quando fu sotto attacco, anche Craxi se la prese con i giornali e con i poteri forti, mentre tutto il mondo politico e degli affari sobbolliva come oggi al calore della viltà  e della dissimulazione all’italiana, ma poi andò alla Camera e disse intera la sua verità  sul rapporto tra i soldi e la politica, andò al processo Enimont e disse intera la sua verità  sul rapporto tra soldi e politica davanti a un impietrito Tonino Di Pietro. I nuovi Craxi, alleati di Di Pietro e delle procure di mezza Italia, ora facciano lo stesso. Poi parleremo di Paolo Mieli e del Corriere della Sera.


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Editoriale della Repubblica dell’8 gennaio 2006


 


LA SINISTRA CHE VUOLE CORREGGERE IL CAPITALISMO
di Eugenio Scalfari


 


Sui risvolti politici della vicenda Unipol si è già  scritto e detto quasi tutto, ma c’è ancora qualcosa da aggiungere in attesa che la Direzione Ds si pronunci l’11 gennaio.


Le questioni che secondo me meritano un chiarimento ulteriore sono almeno tre: quella della diversità  della sinistra, quella del fuoco incrociato contro i Ds e, l’ultima, sulla emendabilità  del capitalismo italiano. È inutile aggiungere che si tratta di tre questioni interamente intrecciate tra loro nel senso che ciascuna è concausa delle altre due. Insieme stanno e insieme cadono, sicché bisogna anche porsi la domanda se sia nell’interesse del paese risolverle o impedirne la soluzione.


Dico subito che a mio avviso è interesse della democrazia italiana che quelle tre questioni siano risolte e che la loro soluzione non passi attraverso il dissolvimento del gruppo dirigente diessino, anche se è vero che la responsabilità  di uscire dal bunker in cui si è cacciato spetta principalmente ad esso (come del resto ha già  cominciato a fare Piero Fassino, nell’intervista che pubblichiamo oggi sul nostro giornale).


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A proposito della diversità  della sinistra italiana citai la settimana scorsa il “lascito” di Enrico Berlinguer. Un lascito costruito dalla coerenza di tutta la sua azione di dirigente politico, volta a evitare il rischio dell’omologazione del suo partito. Berlinguer aveva misurato quel rischio attraverso l’esperienza fatta dai socialisti. Non solo nella fase craxiana, ma già  dal centrosinistra di Nenni e di Giacomo Mancini. La resistenza dei socialisti all’omologazione restando saldi in una versione riformista che incidesse sulla realtà  italiana durò poco più d’un anno, dall’autunno del 1962 al giugno del ’63.


Fu la fase della nazionalizzazione dell’industria elettrica e della nominatività  delle cedole e dei dividendi, ben presto caduta. La fase guidata da Riccardo Lombardi e da Antonio Giolitti nella breve esperienza della programmazione.


Quella fase ebbe termine con il “rumore di sciabole” del generale De Lorenzo, con l’intervento del ministro del Tesoro Emilio Colombo per una politica economica più rigida, con l’uscita di Giolitti dal ministero e l’emarginazione politica di Lombardi. Da allora la presenza politica del Psi si esaurì (con l’eccezione della legge Brodolini sulla giusta causa) nella “conquista” delle vicepresidenze negli enti pubblici di ogni genere e tipo, cioè nell’occupazione condominiale con la Dc delle caselle d’un potere che diventava rapidamente sempre più clientelare e partitocratico e sempre meno democratico e rappresentativo.


Poi arrivò Craxi e non fu più pioggerella ma grandine. La diversità  berlingueriana aveva ben presente quell’esperienza e non voleva che si ripetesse. Non in quei modi. L’austerità  berlingueriana era del resto un costume di tutto il partito, del gruppo dirigente, dei quadri, della base sociale in gran parte composta da operai, lavoratori dipendenti, braccianti, insomma proletari. E anche borghesia liberal-radicale.


Oggi la base sociale diessina è in parte cambiata, il partito attuale è, io dico per fortuna, molto diverso dal vecchio Pci, l’ideologismo rivoluzionario e massimalista non c’è più, la libertà  è diventata un valore almeno pari ed anzi superiore a quello dell’eguaglianza.


Ma la moralità  politica è rimasta. Di qui l’anti-berlusconismo. Volete chiamarlo viscerale?


Chiamatelo pure così perché viene dalla visceralità  della gente di sinistra.


Il presidente della Camera, Casini, ha dichiarato due giorni fa che non vuol più sentir parlare d’una superiorità  morale della sinistra. Dal suo punto di vista ha mille ragioni, ma non si tratta di superiorità , bensì di diverso modo di sentire. Ne volete una prova? La gente di destra (e di centro) non è rimasta affatto scossa dalle notizie di denari passati dalla Popolare di Lodi nelle mani di alcuni autorevoli esponenti di Forza Italia, Udc, Lega, An.


Quelle notizie sono scivolate come gocce d’acqua su un vetro. Così pure per il ben più grave problema del conflitto d’interessi di Berlusconi.


Ma è invece bastato un sostegno “tifoso” e certamente impreveggente dei dirigenti Ds all’Unipol per scatenare una tempesta nella sinistra e nei giornali. Perché? Perché la sinistra non solo è diversa nella sua sensibilità  morale, ma è considerata diversa anche da chi non è di sinistra. La sua diversità  dovuta alle ragioni e alle motivazioni di appartenenza alle quali ho accennato, è dunque un dato di fatto.


Si può dire che è un dato di fatto negativo, un errore, un residuo ideologico. Si può dire qualunque cosa, ma resta un dato con il quale sia gli avversari sia soprattutto i dirigenti debbono fare i conti. Se non li fanno sono loro a sbagliare.


Voglio dire al presidente Casini che quel modo di sentire “diverso” rispetto ai temi della moralità  pubblica, dell’austerità  del vivere, dei valori della solidarietà  e dell’eguaglianza, dovrebbero anche essere patrimonio dei cattolici. Di quelli veri e non di quelli che si fanno il “nomedelpadre” baciandosi le dita e poi crogiolandosi nel sistematico malaffare.


Ce ne sono pochi di cattolici veri e sono anch’essi diversi.


Mi rammarica perciò il disprezzo con cui il cattolico presidente della Camera parla dei diversi. Mi rammarica ma non mi stupisce. Non sempre i cattolici sono veri cristiani che rinunciano al potere per testimoniare la loro fede.


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E vengo alla seconda questione: il fuoco incrociato contro i Ds. Scrissi la settimana scorsa che la dirigenza diessina ha commesso alcuni gravi errori. Si è volutamente impigliata in una difesa di Unipol e del milieu circostante a Consorte, offrendo occasione ad un attacco nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. Da questi errori non si è ancora completamente districata ed è sommamente opportuno e urgente che se ne liberi.


Che il centrodestra in tutte le sue componenti ne abbia approfittato era nell’ordine delle cose e non può stupire. Fa parte della logica elettorale. Stupisce semmai l’impudenza con cui Berlusconi si è gettato in prima persona nella battaglia; stupisce che abbia potuto rivendicare, nell’indifferenza di gran parte della stampa, la sua estraneità  alla mescolanza della politica con gli affari.


La fortuna di Berlusconi come imprenditore immobiliare prima e come concessionario di emittenti televisive poi è interamente legata a connivenze politiche; in particolare al legame strettissimo che ebbe con Bettino Craxi.


I decreti craxiani che sospesero l’applicazione esecutiva delle sentenze della Corte costituzionale in materia televisiva, non a caso furono chiamati decreti Berlusconi, primo e gravissimo esempio d’una legislazione “ad personam”. Per non parlare della legge Mammì che sancì di fatto il duopolio Rai-Mediaset.


Alla fine, dal 1994, avemmo il gigantesco conflitto d’interessi che tuttora incombe sulla vita nazionale.


Ma se vogliamo restare al tema delle Opa tuttora in atto, è stupefacente che le pagine dei giornali e i resoconti delle tivù siano pieni di Unipol mentre è totale l’assenza delle implicazioni ben più gravi di autorevoli politici del Polo, sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari, a finire con lo stesso presidente del Consiglio significativamente presente in compromettenti intercettazioni.


Perché dunque tanto accanimento unilaterale al quale, lo ripeto, la dirigenza diessina ha colpevolmente offerto il destro? La risposta è semplice.


Esiste in certi settori della politica e della stampa una nostalgia di centrismo che trova come impedimento maggiore la presenza d’un forte partito Ds. L’occasione offerta dal caso Unipol è stata da questo punto di vista preziosa. Ma è preziosa anche per rinverdire la visibilità  elettorale di quella sinistra radicale “pura e dura” cui sembra in certe occasioni star più a cuore l’interesse della “ditta” che quello del paese.


Qui non si tratta della diversità  berlingueriana ma d’un massimalismo a buon mercato, velleitario quanto nocivo come tutti i massimalismi. Berlinguer, tanto per ricordare ancora una volta la lezione dell’ultimo vero segretario del Pci, fu nel suo partito il punto centrale dello schieramento interno, distinto e spesso in contrasto con la sinistra di Ingrao, con quella filosovietica di Cossutta, oltre che con il gruppo moderato di Napolitano.


Non darò – non ne avrei alcun titolo – giudizi di valore su queste diverse posizioni, ma ricordo appunto che Berlinguer rifuggì dal massimalismo e dall’estremismo come già  prima di lui Longo e Togliatti.


In conclusione, si spara contro i Ds in nome del centrismo e dell’anti-riformismo. Questa è la verità  del “fuoco incrociato”.


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Infine la terza questione, l’emendabilità  del capitalismo italiano. Questo tema non è stato posto esplicitamente da nessuno con due eccezioni che mi piace citare: Alfredo Reichlin e Franco Debenedetti sulle pagine dell’Unità : due osservatori impegnati con biografie politiche assai diverse e tuttavia in consonanza su un tema di così grande rilievo.


Il capitalismo è stato modificato in modo sostanziale tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, cioè prima e dopo il secondo conflitto mondiale, dal pensiero di Keynes, dall’azione politica di Roosevelt e da quella successiva di Beveridge in Gran Bretagna e della socialdemocrazia in Germania.


Cioè dal pensiero e dalla pratica liberale e socialista abbinate alla forza del movimento sindacale. Questo assetto ha configurato il capitalismo nella seconda metà  del XX secolo accrescendo benessere e piena occupazione.


Da un paio di decenni questa fase si è chiusa; la globalizzazione, l’informatica, la finanziarizzazione dell’economia hanno posto problemi nuovi tra i quali predominano la riforma del mercato del lavoro, la riforma del “welfare” e, soprattutto, la riforma dell’offerta di beni e servizi a cominciare dalla riorganizzazione dei mercati finanziari e delle società  che vi operano.


Illudersi che una delle alternative a questa riorganizzazione sia il settore delle imprese cooperative è un grave errore di prospettiva. La cooperazione rappresenta un modello diverso di organizzazione dei consumi e del lavoro, non già  un’alternativa al capitalismo. Merita di espandersi ma senza farsi “contaminare”. Se non vuole scomparire e essere assorbita e omologata deve restare nel settore “non profit” che costituisce la sua forza e il suo limite.


Un grande partito riformista deve invece porsi il tema di stimolare la riforma dell’offerta, che riguarda la struttura societaria delle imprese capitalistiche, le piccole, le medie, le grandi e grandissime. Il fisco sulle imprese. L’accesso al credito e alla Borsa. Gli intrecci tra banche e imprese.


Gli organi di controllo esterni e interni alle imprese. La dimensione delle imprese. L’internazionalizzazione e soprattutto l’europeizzazione delle imprese. Ci sono nel capitalismo italiano forze consapevoli di questa necessità  evolutiva del sistema e forze che vi si oppongono. Ma una cosa è certa: il sistema da solo non riuscirà  a riformarsi. Lo stimolo politico gli è indispensabile come lo fu per arrivare alla fase denominata “mercato sociale” e “welfare”.


Sono dunque tre questioni in una, come abbiamo indicato all’inizio. E ad esse bisognerà  porre energicamente mano quando la nottata berlusconiana sarà  finalmente passata.