Chi fa la guerra NON va lasciato in pace

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Indice degli argomenti

Chi fa la guerra NON va lasciato in pace
Invitandovi a contestare la “guerra globale, militare – economica – sociale”
in tutte le iniziative di movimento, reti e associazioni (dalle
manifestazioni al sostegno del tavolo per la solidarietà  promosso da “Un
ponte per .” www.unponteper.it), vi segnaliamo alcune iniziative specifiche
(ricordandovi che le iniziative sono consultabili su
www.fermiamolaguerra.it)

1 – Le nostre giornate a Baghdad, una guerra ai bambini, non a Saddam
Rapporto della “Asian Peace Mission” in Iraq, 13-18 marzo 2003
Traduzione a cura di Daniele Migrino e Andrea Grechi (Traduttori per la
Pace)

2 – Il monopolio della realtà 
di PierPaolo Ascari (ATTAC Modena)
Questo articolo è stato scritto poche ore prima dell’attacco

3 – La salvaguardia dell’egemonia: prima l’Iraq, poi l’Iran.
Intervista del Wochenzeitung (Zurigo) del 06 marzo a Michel Chossudovsky
Traduzione a cura di Silvia Necco

4 – Diecimila soldati Usa nella Repubblica Dominicana: un altro fronte di
guerra
di Pascual Serrano
Un accordo tenuto accuratamente segreto stabilisce l’ingresso di diecimila
soldati degli Stati Uniti nel territorio della Repubblica Dominicana tra il
primo gennaio e il 31 marzo di quest’anno. Così è stato rivelato dal
principale partito della sinistra domenicana, Fuerza de la Revolucion.
Traduzione a cura di Andrea Pieralli

5 – Il Wto collassa sotto la sua stessa ambizione
di Nicole Bullard (Focus on Global South)
Appena un anno dopo che i paesi industrializzati avevano annunciato
trionfantemente il lancio del “ciclo di sviluppo di Doha” nei negoziati
commerciali, il WTO sta collassando sotto il peso delle sue stesse
ambizioni.
Traduzione a cura di Paola Albergamo

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Chi fa la guerra NON va lasciato in pace
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Invitandovi a contestare la “guerra globale, militare – economica – sociale”
in tutte le iniziative di movimento, reti e associazioni (dalle
manifestazioni al sostegno del tavolo per la solidarietà  promosso da “Un
ponte per .” www.unponteper.it), vi segnaliamo alcune iniziative specifiche
(ricordandovi che le iniziative sono consultabili su
www.fermiamolaguerra.it)

“Fuori la guerra dalla spesa”
La lista dei prodotti da boicottare per fermare la guerra all’Iraq
Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, tra i fondatori della Rete Lilliput e
diretto da Francuccio Gesualdi, autore della Guida al Consumo Critico edita
dalla EMI, rende nota una lista di prodotti, statunitensi e non, da
boicottare per fermare la guerra all’Iraq.
Per Francuccio Gesualdi, “non possiamo essere complici di questa guerra, noi
cittadini/consumatori possiamo usare l’arma potente e pacifica del
boicottaggio. Il responsabile ultimo della guerra all’Iraq è George W. Bush
perché è lui che ha impartito l’ordine d’attacco. Ma Bush sa che da solo non
andrebbe da nessuna parte. Per portare avanti i suoi folli progetti,
infatti, ha bisogno di denaro e consenso. Dunque se vogliamo indebolire
Bush, dobbiamo colpire chi lo finanzia”.
Un mezzo per ottenere questo risultato è il boicottaggio delle imprese
americane che hanno contribuito alla campagna elettorale di Bush e/o che
forniscono beni all’esercito americano. “Per una maggiore efficacia di
azione – prosegue Gesualdi – consigliamo di concentrare il boicottaggio sui
seguenti prodotti chiave, oltre che sostenere il boicottaggio contro la Esso
[ www.greenpeace.it/stopesso ]”.
Ecco la lista, redatta dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, realizzata
sulla base delle informazioni raccolte nell’ambito dell’aggiornamento della
Guida al Consumo Critico ed. 2003.
* Sottilette Kraft – latticini – Altria
* Liebig – maionese e salse varie – Campbell
* Coca Cola – bibite – Coca Cola
* Soflan – detersivo – Colgate Palmolive
* Del Monte – banane – Fresh Del Monte
* Dole – banane – Dole
* Tenderly – carta assorbente – Georgia Pacific
* Mare Blu – tonno e sardine – Heinz
* Carefree – assorbenti e tamponi – Johnson & Johnson
* Anitra WC – detersivo – Johnson Wax
* Kellogg’s – cereali prima colazione – Kellogg
* Scottex – carta assorbente – Kimberly – Clark
* M&M’s – cioccolatini – Mars
* Gatorade – bevanda dietetica – Pepsi Cola
* Linex – assorbenti e tamponi – Procter & Gamble
* Badedas – bagnoschiuma e shampoo – Sara Lee

Una notizia di pace al giorno, leva la guerra di torno?
Vi segnaliamo il quotidiano virtuale sulla guerra realizzato dal gruppo
Comunicazione del Forum Sociale Europeo, da stampare attaccare e diffondere
ovunque (come un giornale murale o da distribuire)
L’indirizzo a cui potete scaricarlo e diffonderlo è
http://213.136.155.105/
ciccate sulla scritta “15febbra1o”
Ogni giorno – forze permettendo – un volantino/manifesto/murale/ da leggere
on-line, anche, ma soprattutto da stampare, duplicare, diffondere,affiggere
distribuire ai cortei, alle tende della pace, alle scuole, nelle buche delle
lettere del vostro condominio.
Per questo è in versione grande (A3) e piccola (A4), a colori e in grigio,
con un agenda nazionale o con uno spazio vuoto per metterci le iniziative
locali.
Urgono collaboratori!
per collaborare alla redazione: pizzo@carta.org
per collaborare alla realizzazione/impaginazione (necessari QuarkXPress ed
Acrobat) carlo@sconfini.net

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1 – Le nostre giornate a Baghdad, una guerra ai bambini, non a Saddam
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Rapporto della “Asian Peace Mission” in Iraq, 13-18 marzo 2003

Per giustificare la guerra all’Iraq, gli USA sono passati dall’affermazione
che il paese detiene armi di distruzione di massa e nasconde terroristi,
all’affermazione che il suo presidente è un tiranno brutale, che deve essere
deposto per “liberare” il popolo irakeno.
La prima di queste ragioni è ben poco fondata, visto che le sue
argomentazioni sono basate su documenti falsificati, dossier artefatti e
notizie di intelligence gonfiate. Addirittura Hans Blix, il capo degli
ispettori ONU, ha accusato gli USA di fabbricare l’evidenza; persino la CIA
e l’FBI hanno protestato contro le distorsioni apportate ai propri report di
intelligence.
E’ evidente che le ispezioni dell’ONU hanno portato il paese a disarmare, e
continuano a farlo; non c’è nessuna ragione per fermarle ora.

Una Missione asiatica di Pace, composta di esponenti della società  civile e
parlamentari, si è recata in Iraq non solo per esprimere solidarietà , ma
anche per constatare in prima persona le condizioni reali degli iracheni e i
possibili effetti di una guerra sulla popolazione.
La missione è stata guidata da Loretta Ann Rosales, presidente della
commissione per i diritti umani del Parlamento delle Filippine. Tra i
membri: Hussin Amin, sempre del Parlamento filippino, in rappresentanza
della provincia di Sulu, probabile nuovo bersaglio di un attacco USA; Dita
Sari, dirigente sindacale indonesiana e insignita del prestigioso
riconoscimento Magsaysay; Walden Bello, direttore generale di “Focus on
Global South”, un centro di ricerca e di supporto alle politiche regionali
con uffici a Manila, Mumbai e Bangkok; e Zulfiqar Ali Gondal, membro
dell’Assemblea Nazionale Pakistana.

La delegazione è uscita dall’Iraq qualche ora dopo la scadenza
dell’ultimatum, convinta di almeno una cosa: questa non sarà  una guerra
contro Saddam Hussein. Questa sarà  una guerra contro il popolo iracheno,
metà  del quale è composto da bambini. I bambini soffrono per una guerra
continua, fatta sotto la maschera delle sanzioni economiche, e le loro
sofferenze verranno solo aumentate da un ulteriore conflitto.
Inoltre, l’affermazione spesso ridimensionata, eppure altrettanto spesso
ripetuta, della similitudine tra Saddam Hussein e Adolf Hitler, mirata a
rafforzare l’impressione della minaccia arrecata dall’Iraq, e quindi per
giustificare la guerra, non regge. La Germania, ai tempi di Hitler, era la
nazione industrialmente più avanzata del mondo. I membri della missione
hanno constatato che l’Iraq, a prescindere dalla descrizione che ne fanno
gli iracheni, è un paese effettivamente in ginocchio, un paese devastato.

Sono queste le persone che volete uccidere?
Il gruppo è arrivato a Damasco giovedì 13 marzo ma, dopo ore di attesa
all’aeroporto, è riuscito a muoversi verso Baghdad soltanto venerdì sera.
Dopo il ricevimento da parte del rappresentante del parlamento irakeno,
nella mattinata del 15 marzo la missione si è subito diretta all’ospedale
infantile Al Mansour, per vedere da vicino alcuni degli effetti nefasti
provocati dall’embargo ancora in vigore nel paese.
Nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra del Golfo, nel 1991,
gli USA, sotto l’egida dell’ONU, hanno proibito le importazioni in Iraq di
tutti i prodotti che potevano essere utilizzati nella costruzione di armi di
distruzione di massa. Nei fatti, ciò ha significato l’impossibilità  di
fornire a migliaia di bambini malati le cure e i medicinali necessari.
Secondo l’ONU, più di mezzo milione di bambini sono morti per diretta
conseguenza delle sanzioni economiche.
All’ospedale, la missione di pace ha visitato Salah, un paziente di cinque
anni malato di leucemia, che attende semplicemente di morire. La sua vita
avrebbe potuto essere salvata se si fosse sottoposto alla radioterapia, ma
le sostanze chimiche necessarie sono tra quelle che, secondo gli USA,
potrebbero servire a produrre armi nucleari, e quindi non sono a
disposizione dei medici. I casi di cancro sono aumentati notevolmente dopo
gli attacchi americani all’uranio impoverito condotti durante la prima
guerra del Golfo.
La missione ha poi incontrato Murtazan, un bambino di tre anni colpito da un
linfoma, che potrebbe sopravvivere se le cure continueranno, cosa molto
incerta vista l’arbitrarietà  e i ritardi cui sono sottoposte le richieste di
medicinali.
Secondo il dottor Murtada Hassan, la mancanza di medicinali è stata una
catastrofe per i bambini iracheni. Prima dell’inizio delle sanzioni, nel
1989, la mortalità  dei bambini sotto i cinque anni era di 56 su 1000. Nel
1999, questa cifra è più che raddoppiata, fino a 131 su 1000. Solo
nell’ospedale del dottor Hassan muoiono due o tre bambini ogni settimana per
varie tipologie di cancro e relative complicazioni.
“Quando vado nel reparto a visitare i pazienti sono davvero affranto”, ha
detto il dottore ai membri della missione, “perché non posso fare nulla in
mancanza di medicinali adeguati”.
Il dottor Hassan, che non può nemmeno permettersi di comprare libri di
medicina aggiornati, e tanto meno partecipare a conferenze mediche
internazionali, ha guidato i membri della missione nell’ospedale. La
pressione economica dovuta all’embargo, spiega, ha portato al deterioramento
delle strutture ospedaliere. Degli otto ascensori, solo due funzionano. Non
c’è collegamento a Internet.
Solo un numero limitato di condizionatori d’aria sono disponibili, e molte
delle camere dell’ospedale diventeranno insopportabilmente calde durante
l’estate, quando la temperatura sfiorerà  i 60°. E Al Mansour è uno dei
migliori ospedali, negli altri le condizioni sono di gran lunga peggiori.
Il dottore fa osservare come gli USA, tramite l’utilizzo dell’uranio
impoverito, hanno provocato malattie a migliaia di bambini iracheni. Ora,
con le sanzioni, impediscono le loro cure e, di fatto, assicurano loro una
morte certa e dolorosa.
Dopo aver incontrato i bambini in punto di morte nel reparto di oncologia,
la missione è stata portata nella stanza “artistica” dell’ospedale, dove il
dottor Hassan ha fatto vedere i dipinti e i manufatti dei bambini ormai
morti. Appese al muro, le foto dei piccoli pazienti iracheni, corredate
dalla domanda: “Mr Bush, sono queste le persone che lei vuole uccidere?”.
A un certo punto il dottore ha preso alcune foto dagli scaffali, dicendo:
“questo lo abbiamo perso la scorsa settimana, quest’altro un mese fa”.

Abbastanza sano per morire
La missione di pace si è recata in seguito agli uffici dell’UNICEF di
Baghdad, dove un rappresentante dell’organizzazione, il dottor Carel de
Rooy, ha illustrato la situazione dei bambini iracheni tracciando
un’immagine a dir poco atroce e desolante.
L’Iraq ha uno dei più elevati tassi di mortalità  infantile al mondo.
Nell’ultimo decennio ha avuto il più alto tasso di crescita della mortalità ,
maggiore anche dei paesi più poveri del mondo.
Tutto ciò, però, non costituisce una sorpresa, visto che l’incidenza delle
malattie prevenibili è aumentata di più del 100% dal 1990. Cinque milioni di
persone in Iraq non hanno accesso all’acqua potabile. Tra le donne, tre su
cinque sono anemiche. La percentuale dei bambini sotto i cinque anni che
risultano cronicamente malnutriti è, secondo le parole di de Rooy,
“assurdamente alta”.
De Rooy ha messo in evidenza come le sanzioni non solo siano da biasimare,
ma anche che “hanno provocato danni, danni tremendi”. Alla radice dei mali
iracheni, ha affermato, c’è l’embargo economico.
Di fronte alla guerra imminente, l’UNICEF si sta assicurando che gli
iracheni possano resistere almeno alle malattie causate dalla guerra stessa,
dice De Rooy. Se gli USA colpiscono, come già  fecero nel 1991, acquedotti e
fognature, gli effetti in termini di igiene e diffusione di malattie saranno
catastrofici.
Ciò che l’UNICEF sta facendo, in poche parole, e considerata l’elevata
possibilità  di epidemie, è assicurare che i bambini siano abbastanza sani
nel momento della morte.

Il vero terrorismo
Dopo aver visitato i malati e i morenti, la missione si è recata a visitare
i morti.
Nel febbraio del 1991, mentre gli USA iniziavano a bombardare Baghdad, molte
famiglie si nascosero nei rifugi di Al-Amiriya nella speranza di
sopravvivere alla guerra. Gli spessi muri dell’edificio si rivelarono di
nessuna protezione.
Verso le quattro del mattino del 12 febbraio, una bomba lanciata dagli USA
cadde sul tetto dell’edificio, fece un buco di tre metri nel pavimento ed
esplose. 407 persone, per la maggior parte donne e bambini che dormivano,
morirono all’istante. Un numero del quale il Segretario di Stato USA Colin
Powell, a una domanda sulla quantità  di civili uccisi durante la guerra, si
disse “non particolarmente impressionato”.
Le immagini di alcune di queste 407 persone, vittime di un crimine di
guerra, sono oggi visibili sui muri delle stanze di Al-Amiriya, trasformato
in un museo che intende preservare il luogo come fu ridotto dai
bombardamenti. I muri sono ancora neri per la cenere e la fuliggine. I
grandi buchi sul soffitto e il pavimento sono oggi la maggiore attrazione
del luogo. Cavi e sbarre, ricurvi o spezzati, sono ancora arrotolati attorno
alle colonne. Scure e dense macchie di sangue marcano ancora il pavimento in
corrispondenza dei corpi delle vittime.
Nell’istante in cui la bomba esplose, una madre che stava cullando il
proprio bambino venne sbattuta violentemente contro la parete, lasciando
un’immagine visibile simile a una “Madonna col bambino” sullo sfondo nero
del muro.
“Questo è il vero terrorismo” ha detto un turista commosso alla vista delle
immagini dei corpi carbonizzati.
Verso sera, la missione ha fatto una visita di cortesia all’ex ambasciatore
in Germania e Francia, Abdul Razzaq Al Hashmi, il quale ha affermato che le
sanzioni e la minaccia di guerra hanno ridotto il paese a un enorme campo
profughi, dove la gente non fa altro che mangiare e dormire.

Più sicuri di sé
Il giorno successivo, 16 marzo, la missione si è recata in visita dal
ministro della sanità . Il dottor Umaid Mubarak ha rimarcato gli effetti
delle sanzioni e della guerra. Ha raccontato di come gli uffici del suo
ministero fossero tra quelli bombardati nella prima guerra come obiettivi
militari. Per qualche oscura ragione, anche farmacia e ambulatori vennero
distrutti.
Mubarak sottolinea ancora l’iniquità  e l’ingiustizia con cui sono state
applicate le sanzioni e gestito il programma “Oil for Food”. Secondo il
programma, l’Iraq poteva vendere il petrolio per acquistare generi di prima
necessità . Ma questi non sono decisi dall’Iraq, bensì da un comitato ONU
virtualmente controllato dagli USA.
L’Iraq può richiedere solo alcuni tipi di prodotti, include le medicine, le
quali sono sottoposte al giudizio di questo comitato. Una procedura non solo
tediosa, ma spesso anche capricciosa. Alcuni prodotti, ipoteticamente utili
per la costruzione di armi, ma assolutamente necessari per portare avanti
certe terapie mediche, sono stati negati. Circa 5,2 miliardi di dollari di
richieste per cibo e medicine, ottenuti dall’Iraq dalla vendita del
petrolio, devono ancora essere consegnati alla gente che ne ha un disperato
bisogno.
Nonostante ciò, riferisce Mubarak, la gente irachena non solo riesce ad
andare avanti, ma è diventata anche più fiduciosa in se stessa e
autosufficiente. “Siamo iracheni diversi da quelli del 1991”.

Come Tebaldo
All’università  di Baghdad, la missione ha visto con i propri occhi la
volontà  degli studenti di non lasciare entrare la guerra nella propria
educazione. Alla vigilia della guerra, i corsi continuavano come sempre. Gli
studenti affollavano i corridoi, giocavano a pallavolo e studiavano Romeo e
Giulietta di Shakespeare.
Il gruppo è entrato in una classe durante una lezione di letteratura inglese
ed ha parlato con quasi cinquanta studenti, per la maggior parte donne, per
chiedere loro cosa pensassero della guerra.
Gli studenti erano perfettamente al corrente di quali fossero le vere
ragioni di questa guerra. Conoscevano la loro storia. Per rispondere
all’affermazione di Bush secondo cui i bombardamenti sono necessari per
liberarli, uno studente dice: “E’ ciò che hanno detto, da secoli, tutti
quelli che volevano conquistare l’Iraq”.
Gli USA e i suoi alleati sperano che le sofferenze provocate dall’embargo e
dalla guerra convincano il popolo iracheno a ribellarsi contro Saddam
Hussein. Al contrario, non fanno che aumentare il consenso verso il regime.
Questo era del tutto evidente dal modo in cui tutti gli studenti
dichiaravano il proprio apprezzamento per Saddam e il disgusto per Bush. “E’
come Tebaldo” dice uno studente, riferendosi al personaggio di Romeo e
Giulietta.
Il professor Abdul Sattar Jawad dice che nonostante alcuni degli edifici
dell’università  siano stati bombardati nel 1991, lui e i suoi studenti
vedono ancora la scuola come un rifugio. Racconta di come uno studente abbia
discusso la sua tesi di dottorato proprio mentre le bombe cadevano sul resto
della città .
Jawad considera una pia illusione l’idea che la gente irachena corra nelle
strade e gioisca per l’arrivo dei liberatori a Baghdad. A suo avviso
l’embargo ha peggiorato notevolmente il sistema educativo, rendendo molto
difficile l’importazione di libri e impossibile la partecipazione a
conferenze internazionali.
Jawad, che insegna letteratura americana e autori come William Faulkner e F.
Scott Fitzgerald, sostiene che sta diventando sempre più difficile far
capire agli studenti la differenza tra cultura americana e aggressione
americana. Di fronte alla pioggia di bombe, chiede, “come posso convincere i
miei studenti che la cultura e la democrazia americana sono cose buone?”.
Egli ne è, tuttavia, convinto, e così sembrano i suoi studenti. Alla domanda
se i libri che studiano mostrino che gli USA siano intrinsecamente
aggressivi e violenti, la risposta unanime è “No”.
Tutti gli studenti sono d’accordo nel ritenere che l’unico modo per non
essere soverchiati dalla minaccia della guerra è quello di continuare ad
andare a scuola. Stare a casa, dicono, è già  un segno di disperazione e di
resa.

Solidarietà  internazionale
Dopo la visita all’università , la missione si è recata al Press Center del
ministero per l’Informazione, dove alcune emittenti internazionali si sono
accampate per monitorare la situazione a Baghdad. Durante la conferenza
stampa, alla presenza degli inviati di diversi media europei, canadesi e del
Medio oriente, la delegazione ha esposto gli obiettivi della missione in una
fase così critica come quella attuale.
Etta Rosales ha posto l’accento sulla necessità  di esprimere un forte
messaggio di solidarietà  inter-asiatica al popolo iracheno. Hussin Amin, dal
canto suo, ha ricordato il rischio che la provincia filippina del Mindanao,
da cui proviene, possa essere uno dei prossimi obiettivi dell’azione
militare statunitense. Zulfiqar Gondal ha risposto ad alcune domande sull’
atteggiamento del popolo pachistano verso la guerra. Dita Sari ha espresso
la solidarietà  degli indonesiani verso i fratelli musulmani che saranno
colpiti dall’intervento armato.
La conferenza stampa è stata trasmessa in serata dalla televisione di stato
irachena e da altre emittenti arabe, consentendo così il raggiungimento di
uno dei principali obiettivi della missione: far pervenire direttamente il
messaggio di solidarietà  asiatica al popolo iracheno nell’ora del bisogno.
Successivamente, alcuni componenti della delegazione hanno presenziato,
nella Piazza della Libertà  di Baghdad, alla cerimonia d’inaugurazione di un
gigantesco murale, opera del famoso artista coreano Choi Byung Soo. In
quella sede hanno avuto l’opportunità  di incontrare altre delegazioni di
pace provenienti da Messico, Giappone e Corea. A un certo punto, un uomo si
è avvicinato esprimendo, in un inglese incerto, la gratitudine degli
iracheni per la presenza della delegazione nella loro città .
La missione ha poi organizzato una Serata di Solidarietà  asiatica per
confrontarsi e discutere con i numerosi gruppi stranieri giunti a Baghdad
per opporsi alla guerra. Hanno così avuto modo di condividere impressioni,
pareri e progetti con pacifisti provenienti da un gran numero di paesi quali
Australia, Ucraina, Russia, Italia, Canada, Svezia, Corea del sud, Giappone,
Regno unito e Stati Uniti.
L’incontro è stato anche l’occasione per esprimere formale ringraziamento
alla preziosissima assistenza di Kathy Kelly, di “Voices in the Wilderness”,
l’organizzazione che ha fatto arrivare a Baghdad alcuni gruppi di cittadini
statunitensi, tra cui alcuni rappresentanti delle vittime dell’11 settembre;
a Han Sang Jin, dell’organizzazione coreana “Nonviolent Peaceforce”; a Wadah
Qasimy e Hasan al-Baghdadi, del ministero degli Esteri iracheno; a Fahdi
Hefashy, console onorario delle Filippine in Siria; e a Grace Escalante,
ambasciatrice filippina in Iraq.
Alcuni delegati stranieri hanno intenzione di rimanere in Iraq anche durante
la guerra. Ritengono di avere appena il 20% di possibilità  di sopravvivenza
in caso di conflitto. C’è chi è assolutamente determinato a posizionarsi
come “scudo umano” a protezione di obiettivi militari come ospedali, ponti,
centrali elettriche e impianti di trattamento idrico. Eventuali
bombardamenti di questi siti sarebbero da considerare come crimini di
guerra.

Evacuazione
Il programma della missione è stato discusso e organizzato in piena
autonomia dai componenti della delegazione – senza alcuna ingerenza da parte
delle autorità  irachene. In aggiunta, c’è stata l’opportunità  di interagire
con la gente della strada – tassisti, camerieri, funzionari statali,
negozianti, poliziotti, ecc.
Queste interazioni sono state assolutamente spontanee e casuali, e non
arrangiate a bella posta dagli strateghi del governo iracheno.
La notte del 16 marzo, nei locali del Palestine Hotel, dove soggiornavano i
membri della delegazione e numerosi giornalisti e pacifisti stranieri,
oggetto di tutte le conversazioni era l’ultimatum lanciato da Bush all’Onu e
a Saddam Hussein. Non pochi, tra i delegati che avevano deciso di restare,
si sono sciolti in lacrime nell’accomiatarsi da coloro che erano in
partenza.
Inizialmente la missione aveva previsto di restare fino alla notte del 17
marzo, eventualmente anche fino al 18, ma a quel punto il volo per Damasco
era già  stato cancellato. Il costo dell’eventuale noleggio di pulmini per
raggiungere la Siria via terra nel frattempo era più che triplicato, e la
possibilità  di accreditarsi come personale diplomatico o di agenzie dell’Onu
diminuiva di ora in ora, così come quella di trovare un iracheno disposto ad
accompagnarli, data la limitata disponibilità  di veicoli. L’evacuazione di
Baghdad era iniziata già  prima dell’arrivo della missione, ed aveva subito
un’accelerazione la notte del 16 marzo, in coincidenza con l’ultimatum
statunitense.
Per queste ragioni, nonostante la loro intenzione di proseguire la missione,
i membri della delegazione si sono visti costretti a fare i bagagli e a
partire la mattina seguente, anche per la pressante insistenza dell’
ambasciatrice filippina. Lungo la strada per Damasco, la missione ha
incontrato file di macchine con famiglie che si affrettavano a trasferirsi
in località  più sicure, e lunghe code alle stazioni di benzina.
Giunti in prossimità  del confine con la Siria, la missione ha fatto
conoscenza con un gruppo di volontari provenienti da Marocco, Algeria,
Palestina e Siria, che stavano entrando in Iraq per combattere gli Stati
Uniti e le truppe alleate.
Dopo un estenuante viaggio di 15 ore, la missione è giunta a Damasco il 18
marzo per poi partire alla volta di Manila, Giacarta e Karachi il giorno
seguente.
La delegazione ha promesso di farsi portavoce del messaggio proveniente dal
popolo iracheno nei rispettivi paesi di appartenenza. Questa non è una
guerra contro dei terroristi. Non è una guerra contro Saddam. E’ una guerra
contro il popolo iracheno, in particolar modo contro i bambini, che
costituiscono la metà  della popolazione.

I componenti della missione:
Loretta Ann Rosales, responsabile della missione, esponente del partito
Akbayan! al Parlamento filippino e presidente della Commissione per i
diritti umani;
Prof. Walden Bello, direttore generale di “Focus on the Global South”
(Mumbai, Bangkok, Manila);
Zulfiqar Ali Gondal, membro dell’Assemblea nazionale Pachistana;
Dita Sari, attivista sindacale indonesiana, insignita del prestigioso
riconoscimento Magsaysay nel 2001;
Hussin Amin, parlamentare filippino del primo distretto di Sulu
Jim Libiran e Ariel Fulgado, rispettivamente inviato e operatore del
programma d’inchiesta “The Correspondents”;
Herbert Docena, ricercatore di “Focus on the Global South”.

Traduzione a cura di Daniele Migrino e Andrea Grechi (Traduttori per la
Pace)

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2 – Il monopolio della realtà 
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di PierPaolo Ascari (ATTAC Modena)

Questo articolo è stato scritto poche ore prima dell’attacco

A questo punto e’ una questione di ore, poi i missili cominceranno a
fischiare. Missili convenzionali, missili cui manca qualche trascurabile
diottria, missili con una scritta divertente e liberatoria, “in culo a
Saddam” o ragazzate affini. Due o tre di questi missili rovineranno subito
sul Ministero dell’Informazione,, tranciando i cavi che permettono a Saddam
di cucinare le notizie di guerra e di drogare l’opinione dei suoi sudditi.
Dalle competizioni elettorali alla guerra, la superficie sulla quale si
estende il dominio della rappresentazione deve essere totale, senza
increspature e zone franche, tanto da tramutarsi in una vera e propria
privatizzazione della realta’. A settembre, quando i ministri dei paesi che
aderiscono al WTO si troveranno a Cancun, in Messico, per aggiornare
l’elenco dei servizi privatizzabili, bisognera’ che qualcuno lo dica: la
realta’ non e’ in vendita, se ne sono esaurite le scorte. Chi gestisce il
telecomando e’ il vero padrone di casa. I padroni della realta’ controllano
il modo in cui viene rappresentata e rendono narcotica la sovranita’ del
padrone di casa. C’e’ tutta una storia della guerra a luci soffuse che
comincia con l’invasione delle Malvinas, passa per il Kossovo e la Cecenia e
arriva a Kabul…
Non e’ solo una storia di falsi e di contrabbandieri, ma un romanzo
dozzinale di ciechi e di black-out che arrivano a scioglierne l’intreccio.
Oggi quel romanzo ricomincia: bisogna tagliare la lingua di Saddam, per
questo il Ministero dell’Informazione rimane uno dei target più prevedibili.
Poi la guerra delle notizie tracimera’ in un secondo tempo, più delicato e
paradossale: quello in cui chi e’ bombardato riceve informazioni, sul fatto
di essere bombardato, da chi lo bombarda. Non tramite la tivu’, la radio,
gli SMS, il satellite o internet. Niente di tutto questo. Probabilmente –
visto che da qualche giorno se ne fa un uso massiccio in alcune zone del
paese – verra’ rispolverato lo stesso mass-media adoperato dal generale
Alexander, nel 1944, per sbandare i nostri partigiani: il volantinaggio
aereo. Privatizzare, anche nel caso della realta’, non significa fornire un
buon servizio, all’avanguardia e competitivo, ma evitare che ne vengano
forniti altri.
Ma e’ davvero possibile? Davvero crediamo che un buon grafico e un signor
volantinaggio possano intaccare lo spirito nazionale di un popolo temprato
da decenni di esclusione (su tutti i fronti, compreso quello della pieta’
internazionale)? Che la promozione della guerra scalfisca gli orientamenti
prodotti dalla miriade di Saddam che tappezzano quelle strade e quelle
piazze? Che l’operazione di marcketing degli alleati faccia fiorire bande di
patrioti e comitati di liberazione nazionale? Che gli iracheni possano
rimanere ammaliati da un nuovo e cosi’ compromesso erogatore di realtà ,
insomma? Io francamente sono molto scettico. E penso inoltre che farsi
questo genere di illusioni significhi aver drammaticamente perso il senso
della misura, sovrastimarsi, non essere piu’ capaci di ammettere che ci sono
identita’ culturali e situazioni politiche più resistenti della nostra al
nostro modo di smerciare modelli di vita. C’è parecchio eurocentrismo – come
lo si chiamava una volta – in chi crede di convincere gli altri con un
volantinaggio: un’inconscia teologia del tutto-mercato, che giustifica e
redime, che si vende in ogni contesto e che, anzi, lo riconfigura.
Questa prospettiva può convincere i fattorini della democrazia d’asporto, ma
difficilmente modifichera’ gli orientamenti di chi riceve dagli stessi aerei
il lutto, la morte ”“ e la buona novella. Per la buona novella non si uccide:
al limite, ma proprio al limite, si muore. Del resto lo sanno anche al
Pentagono, nonostante lo ignorino parecchie migliaia di elettori che vivono
dell’area di egemonia del Dipartimento di Rumsfelds e che commettono
l’errore imperdonabile di confondere la democrazia con le definizioni
commerciali che escono dai nostri centri di comando. Il 15 febbraio, se non
altro, sta li’ a testimoniare che il numero di questi elettori e’ in una
fase di erosione.
Sicuramente al Pentagono, sul conto dei volantinaggi, non si fanno
illusioni. Certo, sanno di poter contare su un numero imprecisato di
disertori, ma in questo caso sara’ il terrore ”“ più che la
controinformazione ”“ a pilotare le scelte. Cosi’ dobbiamo concludere che
l’abbattimento del Ministero e dei ripetitori, i volantini, la lana di vetro
ideologico che gli esperti militari avvolgeranno intorno agli altoparlanti
di regime siano solo una manovra additiva, il contorno coreografico con cui
gli alleati serviranno la guerra sulle tavole di Baghdad? Un di piu’,
insomma, una misura supplementare, per non lasciarsi sfuggire nemmeno quella
dozzina di iracheni che – non ricevendo piu’ informazioni e venendo in
possesso delle modalita’ d’uso diffuse dalla Air-Force – gireranno tacchi e
fucili di 180 gradi?
No, o comunque non solo. Il target nel target, il vero destinatario del
missile che demolira’ il palazzo del Ministero e del putiferio di fotocopie
che piovera’ sull’Iraq saremo noi. Quel missile scongiurera’ l’ipotesi che
gli operatori di Saddam riprendano scene inopportune, le montino (come si
montano le immagini in un paese dittatoriale) e le spediscano alla redazione
dell’Al-Jazeera di turno. Quelle immagini potrebbero arrivare nei nostri
tinelli, accanto alle notizie più corroboranti montate dall’ufficio militare
che e’ stato appositamente allestito nei locali della CNN, accanto a una
retorica della democrazia a (doppio) domicilio, il nostro e quello iracheno.
E non e’ bello.
La propaganda di Saddam non rischia quindi di inquinare la buona
informazione degli iracheni, ma il monopolio della realta’ che si esercita
sul circuito delle notizie e delle opinioni occidentali. Non credo che ci
sia bisogno di troppa malizia per ammettere che questo sara’ l’effetto non
troppo collaterale del bombardamento al Ministero (riabilitato, reso
ragionevole dai volantinaggi), degli uffici di censura e dei miliardi di
fotogrammi che nelle prossime settimane usciranno da Washington per saturare
la nostra semiosfera. Per questo, tra le scritte dei missili che
cominceranno a precipitare fra poche ore sui tetti dell’Iraq, spero che un
soldato in vena di zingarate menzioni, oltre al tirannico sfintere di
Saddam, quello più democratico (ma non per questo meno praticabile) dell’
opinione pubblica mondiale.

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3 – La salvaguardia dell’egemonia: prima l’Iraq, poi l’Iran.
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Intervista del Wochenzeitung (Zurigo) del 06 marzo a Michel Chossudovsky*

WoZ: Cosa dovrebbe accadere perche’ si eviti l’incombente guerra in Iraq?
Michel Chossudovsky: Innanzitutto dobbiamo capire le cause e le conseguenze
di una guerra. Questa e’ una guerra di conquista che e’ soltanto al suo
inizio. Il governo di George W. Bush lo ha fatto capire chiaramente: prima
l’Iraq, poi l’iran. E’ una guerra che portera’ alla militarizzazione di una
grossa regione: dalla costa est del Mediterraneo fino al confine occidentale
della Cina. E non e’ solo una guerra indirizzata contro l’Iraq o l’Iran,
bensi’ anche contro gli interessi petroliferi degli stati europei. C’e’
un’enorme rivalita’ tra compagnie petrolifere, in particolare tra le ditte
angloamericane BP, Chevron-Texaco, Exxon e le compagnie europee come
Total-Fina-Elf e l’italiana ENI. Abbiamo dunque una contrapposizione tra il
blocco USA-Gran Bretagna e Francia-Germania. Questo non riguarda solo il
petrolio, ma anche l’industria degli armamenti.

WoZ: A causa di questa rivalita’ deve automaticamente essere condotta una
guerra contro l’Iraq?
Michel Chossudovsky: Si tratta dell’occupazione militare dei campi
petroliferi. Questo e’ un obiettivo importante. Gli Europei si trovano di
fronte alla domanda se parteciparvi o no al fine di ottenere una presenza
militare in Medio Oriente, come in Jugoslavia. Ma la forte rivalita’ tra le
grandi potenze rende difficile un’azione militare comune in questo momento.

WoZ: Il governo Bush ha altri interessi economici per portare avanti una
guerra?
Michel Chossudovsky: L’egemonia statunitense potrebbe rafforzarsi
ulteriormente con questa guerra di conquista che e’ in programma. Con
l’introduzione dell’Euro, il Dollaro si e’ ritrovato una concorrenza. In
alcuni stati dell’ex blocco dell’Est, ad esempio nelle ex repubbliche
Sovietiche dell’Asia centrale, si e’ affermato il Dollaro. In Europa
dell’est, Jugoslavia e in alcuni stati dell’ex Unione Sovietica si e’ invece
imposto l’Euro.

WOZ: Il direttore della Banca Centrale statunitense, Alan Greenspan, mette
pero’ in guardia da una guerra in Iraq, perche’ potrebbe indebolire
ulteriormente le congiunture…
Michel Chossudovsky: Ci sono molte contraddizioni, e viviamo in un mondo
molto complesso. Ma io sono fermamente convinto che la meta delle operazioni
militari e strategiche del governo statunitense sia anche la
destabilizzazione dei sistemi monetari di altre nazioni, per poter cosi’
assicurare il predominio statunitense nel mondo.

WOZ: Quanto e’ forte l’intreccio militare e politico negli Stati Uniti?
Michel Chossudovsky: Negli Stati Uniti c’e’ una massiccia deviazione di
denaro pubblico a favore dell’ambito militare. Una ditta di armamenti non
produce per il mercato libero, bensi’ vende al Ministero della Difesa. Senza
l’acquirente statale questa ditta e’ morta. Gli importi che vanno a finire
nell’industria degli armamenti anziche’ nei servizi sociali sono enormi: il
budget della Difesa statunitense e’ del trenta per cento piu’ alto
dell’intero prodotto interno lordo della Federazione Russa, in cui vivono
piu’ di 150 milioni di persone. Le ditte di armamenti esercitano un enorme
influsso sullo stato, insieme alle compagnie petrolifere, finanziare e
farmaceutiche. L’apparato militare, i servizi come la CIA o i Ministeri sono
fortemente legati a livello personale con gli interessi di queste compagnie.
Nei consigli di vigilanza dell’industria degli armamenti si incontrano
spesso ex direttori della CIA, e dei generali lavorano per le compagnie
petrolifere.

WoZ: Tutto cio’ non suona un po’ come una teoria del complotto?
Michel Chossudovsky: Il legame degli interessi economici e militari cosi’
come l’influsso dei servizi segreti sul settore pubblico sono molto
evidenti. Per questo ultimamente ho concentrato la mia ricerca economica
sulle operazioni nascoste dei servizi segreti con le quali si preparano le
guerre. Il governo Bush afferma in malafede di voler condurre la guerra
contro l’Iraq per motivi umanitari. Afferma l’esistenza di un legame tra il
governo iracheno e Al-Quaeda di Osama Bin Laden, il che e’ pura propaganda.
Non e’ invece propaganda il fatto che la CIA per motivi di anticomunismo
abbia contribuito all’affermazione dei Mujaheddin in Afghanistan. Ancora
durante la presidenza di Bill Clinton il governo statunitense ha appoggiato
gruppi islamici in collegamento con Al-Quaeda.

WoZ: Questo pero’ si riferisce alla guerra in Jugoslavia ed era prima
dell’11 settembre?
Michel Chossudovsky: Si, era in Bosnia, ma dopo la guerra fredda. D’altra
parte abbiamo mantenuto relazioni con il servizio segreto pakistano ISI, che
fino all’11 settembre aveva buoni legami con il regime Talebano cosi’ come
con i servizi statunitensi. Da questo non traggo nessuna conseguenza
definitiva sui gesti concreti, ma questi fatti non possono andare dossolti
della discussione politica.

Michel Chossudovsky (60) e’ Professore di Economia presso l’Universita’ di
Ottawa, Canada e direttore della rivista “Global Outlook”.

Traduzione a cura di Silvia Necco

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4 – Diecimila soldati Usa nella Repubblica Dominicana: un altro fronte di
guerra
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di Pascual Serrano www.pascualserrano.net

Un accordo tenuto accuratamente segreto, trapelato dalle notificazioni
diplomatiche riservate del 2 e del 22 novembre 2002, stabilisce l’ingresso
di diecimila soldati degli Stati Uniti nel territorio della Repubblica
Dominicana tra il primo gennaio e il 31 marzo di quest’anno. Così è stato
rivelato dal principale partito della sinistra domenicana, Fuerza de la
Revolucion.
L’accordo, denominato Programma Nuovo Orizzonte, ha come obiettivo militare
disporre di una testa di ponte che serva da base per le loro forze di
operazioni rapidi radicali in Porto Rico. Fonti della sinistra dominicana
pensano che queste intenzioni del governi Bush confermino i suoi grandi
timori di fronte alla possibile espansione dell’attuale onda trasformatrice
rappresentata oggi dalla Rivoluzione Bolivariana del Venezuela, l’
insurrezione colombiana, il trionfo di Lula in Brasile, la vittoria di Lucio
Gutierrez in Ecuador e l’intensificarsi delle lotte in Bolivia, Uruguay,
Argentina e Perù.
Le truppe nordamericane arriveranno in gruppi di 200 effettivi ogni due
settimane fino a completare il totale del contingente, non dovranno
rispettare nessun requisito migratorio, né avranno la licenza di guida e non
dovranno pagare nessuna imposta o tariffa locale.
Allo stesso tempo potranno usare uniformi e armi senza alcun limite,
potranno spostare gruppi militari e civili (inclusi aerei, elicotteri, navi,
armi, veicoli) senza che possano essere ispezionati dalle autorità 
dominicane. Potranno, inoltre, utilizzare le acque territoriali, lo spazio
aereo, lo spazio radar e il loro sistema di comunicazioni a piacere e senza
costo alcuno. La giustizia dominicana non avrà  nessun competenza sulle
azioni di quelle truppe sul proprio territorio, la giurisdizione sarà  solo
degli Stati Uniti, cosa che coprirà  la totale impunità  delle azioni di un
contingente militare straordinario. Così, qualunque reclamo da parte di
terzi dovrà  essere presentato alle autorità  statunitensi senza la
partecipazione della autorità  dominicana, cosa che prevede in pratica l’
impossibilità  di qualunque reclamo per danni o perdite umani o materiali.
D’altro canto, il governo USA, il suo personale e i suoi titolari di
contratti potranno importare, esportare, utilizzare qualunque proprietà 
personale, gruppi tecnologici, servizio del personale, effettuare
addestramento senza alcun tipo di restrizione e senza alcun costo. Il
personale statunitense sfrutterà  tutte le risorse per garantirsi sicurezza
in aria, terra e mare, e il governo dominicano dovrà  cooperare in tutto
quello che gli verrà  chiesto. L’accordo ha la firma a tergo del presidente
dominicano Hipolito Mejia.
Le autorità  nordamericane giustificano questo intervento militare senza
precedenti dall’invasione del 1965, come “controllo di frontiere,
costruzione di opere civili, collaborazione e addestramento truppe per
combattere il narcotraffico, il terrorismo e l’immigrazione illegale”.

Tratto da www.rebellion.org

Traduzione a cura di Andrea Pieralli

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5 – Il Wto collassa sotto la sua stessa ambizione
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di Nicole Bullard (Focus on Global South)

Appena un anno dopo che i paesi industrializzati avevano annunciato
trionfantemente il lancio del “ciclo di sviluppo di Doha” nei negoziati
commerciali, il WTO sta collassando sotto il peso delle sue stesse
ambizioni.
Il mese scorso, le discussioni su TRIPS e la salute – viste da molti come
l’unico risultato positivo di Doha – sono cadute nello scompiglio quando i
governi africani le hanno lasciate con disgusto. Alla settimana prima della
fine dell’anno non c’è ancora alcun segno di accordo, nonostante i pesanti
sforzi degli USA di ricattare i governi del Sud perché accettino che le loro
richieste sull’accordo siano limitate a tre malattie, più una lunga serie di
altre limitazioni che avrebbero in realtà  l’effetto di distruggere
l’industria farmaceutica locale nei paesi in via di sviluppo in cui già 
esiste e forzerebbe gli altri dipendere dall’Occidente. Questa è la “grande
vittoria” di Doha.
Il WTO è anche scosso da un’agitazione sindacale, perché il personale del
segretariato si è impegnato in uno sciopero bianco per richiedere aumenti e
nuove assunzioni. Il sindacato del personale sostiene che gli stipendi sono
rimasti invariati per dodici anni (dai tempi del GATT), che il carico di
lavoro è aumentato del 30 per cento dal 1999, che il numero totale di
parole tradotte è aumentato del 29%, gli incontri formali e informali del
35%, mentre le attività  di assistenza tecnica sono aumentate del 25%.
Tuttavia, il numero del personale è aumentato solo del 5% in questo periodo
e i costi per il personale solo del 7,8%. Mentre in ottobre il Dr Supachai
ha ricevuto un aumento significativo, retrospettivo al 1 settembre, data di
inizio dell’incarico, di circa 45.600 CHF (31.875 USD) all’anno al suo
stipendio annuale base di 287.000 CHF (200.610 USD).
Il problema non è nuovo: molte delegazioni dei paesi in via di sviluppo
conoscono in prima persona l’impossibilità  di tenere il passo con gli
impegni eccessivi, quando semplicemente non hanno il personale per coprire
tutti gli incontri e continuare i negoziati – perfino quando sono in gioco
i loro stessi interessi commerciali.
Sembra che il personale del WTO abbia tratto la stessa conclusione: l’agenda
del WTO è troppo piena e il carico di lavoro è impossibile da gestire.
Questo avvantaggia i paesi ricchi che hanno una grande quantità  di esperti
legali, giuristi del commercio e negoziatori per seguire gli incontri di
ogni commissione e leggere tutti i documenti, ma è un ostacolo enorme per le
delegazioni dei paesi in via di sviluppo. La soluzione non è forzare i paesi
in via di sviluppo e il personale a mantenersi all’altezza di pochi paesi
ricchi, bensì rallentare tutta l’agenda, in modo di dare a tutti – personale
compreso – il tempo di compiere il proprio lavoro in modo corretto e
appropriato.
Anche il Dr Supachai Panitchpakdi, direttore generale del WTO, è nervoso a
causa dell’agenda troppo carica, una preoccupazione che è stata espressa
molto chiaramente ai primi di Dicembre, quando ha detto che “con il numero
di scadenze che ci attende, dobbiamo essere coscienti del rischio di
rinviare troppe cose. Non possiamo rischiare di sovraccaricare l’agenda per
i Ministri a Cancun. Se quella conferenza non è un successo, ho paura che
l’intero ciclo potrebbe essere messo a repentaglio.
L’avvertimento di Supachai è pensato per far pressione su tutti i membri per
risolvere le loro differenze, ma mostra anche che la paura che Cancun si
risolva in un disastro non è lontana dai suoi pensieri, cosa non
sorprendente, visto che Supachai ha puntato il proprio successo sulla
conclusione dei negoziati di Doha entro il 2005.
L’ultimo segno di una crisi profonda nel WTO è il documento riassuntivo
delle modalità  agricole divulgato il 18 dicembre dal presidente della
commissione sull’agricolturoa Stuart Harbinson. Nelle parole
dell’osservatore veterano del WTO Chakravarthi Raghavan, il documento di 90
pagine “scava la fossa all’ “agenda dello sviluppo” del nuovo ciclo di
negoziati ed al programma di lavoro lanciato al 4° incontro ministeriale a
Doha nel novembre 2001″, mentre l’Istituto Statunitense per l’Agricoltura e
la Politica Commerciale (IATP) ha detto che tale documento mostra “quanto
rimangono lontani i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo” “Pensare
che il WTO possa prendere 90 pagine di grandi differenze e le converta i 10
accordi in tre mesi e che gli accordi aggiunti reggano, sembra realmente
esagerato” è stata la risposta iniziale dello IATP.
Forse il miglior giudizio su dove si stia dirigendo il WTO viene dal vice
segretario del PSI Mike Waghorne che, in un e-mail di fine anno sullo stato
dell’attività  ha citato Aleksandr Solzhenizyn: “Puoi avere potere sulle
persone finché non gli togli tutto. Quando hai derubato un uomo di tutto
quello che ha, non è più in tuo potere – è di nuovo libero.”

Traduzione a cura di Paola Albergamo


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