Dinanzi alla perdita, esprimiamo il meglio di noi stessi e diciamo il meglio di quanto è andato perso. Il vuoto ci attrae e ci unisce. Attorno a esso ci mettiamo in circolo, per contemplarlo, nostalgicamente, dolorosamente. Così, in tutti i contesti, di perdita in perdita, un vuoto dietro l’altro.
È dinanzi alla vita, quella che ci scorre accanto o difronte, che ci smarriamo. Sembriamo aver perso la capacità, antica e semplice, di riconoscerla, quindi di alimentarla, sapendola godere in modo sano, senza rimorsi, con gioia.
Paure, diffidenze, egoismi, ci rendono incapaci di coglierne i segni, di riconoscere il buono, anche poco, che c’è in mezzo a noi. Il valore dell’impegno, dell’opera quotidiana, che poi è la dimensione umana, quella che fa di uomini e donne gli unici esseri viventi capaci di migliorare la realtà che vivono e se stessi.
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Inevitabile citare, ancora una volta, Calvino:
《L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.》 [Italo Calvino, Le città invisibili]