Non poteva che essere imperdibile un film (#TheFather di Florian Zeller) che, al suo avvio, ci apre le porte di un appartamento londinese accogliendoci con la straordinaria aria “What Power art thou” del King Arthur di Henry Purcell.
Per chi voglia ascoltarla:
È la dimora di un anziano signore (interpretato da Anthony Hopkins, un attore che è un dono del cielo, in un’interpretazione, quest’ultima, divina!) che con tutte le sue forze oppone una strenua e vana resistenza al deperimento delle sue capacità intellettive. La sua mente lo sta abbandonando.
Quasi tutto il film è ambientato tra le pareti di questa casa. Almeno così sembra! Qui succedono cose inspiegabili. Oggetti scompaiono e ricompaiono. Cambiano i colori delle piastrelle della cucina, che da una scena all’altra ritroviamo ammodernata. La casa si arricchisce di nuovi arredi, poi è improvvisamente svuotata. Spariscono quadri. Gli ospiti che vanno a trovare l’anziano cambiano volto o nome. Anzi, non si capisce più a chi appartenga la casa stessa, a lui o alla unica figlia che cerca di prendersi cura del padre? Chi sono poi quelle persone che trova in casa? La figlia, la badante, l’altra figlia morta anni prima in un incidente, il genero (ma non si erano separati anni prima?), il nuovo compagno. Chi sono, hanno volti e nomi diversi, eppure ricorrenti? La figlia, a momenti alterni, gli comunica che si trasferisce a Parigi e smentisce la circostanza: lo lascia solo, come teme l’anziano? E che ci fa quella simpatica badante con il viso dell’altra figlia che non vede da tempo e di cui non ha notizie, in realtà morta anni prima in un incidente e di cui conserva orgoglioso un quadro che, da una scena all’altra, scompare lasciando solo una traccia sulla parete?
Il prima e il dopo si sovrappongono e si invertono; le situazioni vengono rivissute, due o più volte, ora da una prospettiva, ora dall’altra; porte che danno su ambienti aperti e sconosciuti si rivelano poi nicchie chiuse; la mattina si fa sera da una stanza all’altra.
Tempi, luoghi, gesti e parole sono sempre gli stessi e sempre altri. Ricorrono e si rincorrono. Un vortice sfuggente che segue la fluidità della mente di questo vecchio, ora burbero e sgradevole, ora tenero e affascinante, che arriva, alla fine, ad ammettere a sé stesso di non capire “cosa sta succedendo”. Eppure era stato sempre “molto intelligente”, come vezzosamente ricorda.
Sono saltate le certezze e le solidità dei riferimenti temporali, spaziali e relazionali. Di una vita. Al loro posto, solo smarrimento, incomprensione, vulnerabilità.
Sì, cosa sta succedendo, sfugge a lui e a noi?!
Siamo fuori strada. Tempo, luogo, azione, le canoniche unità aristoteliche, si annullano. La casa non è più la stessa, i ricordi svaniscono, le relazioni si sciolgono, come il tempo nonostante l’anziano signore ossessivamente cerchi di legare al polso il suo vecchio orologio.
Tempo, luogo, azione, relazioni (quelle essenziali) non esistono più se non ricomposti in un’altra dimensione, in una diversa e irriducibile unità.
Il film non rappresenta la malattia, non segue le conseguenze della perdita del controllo razionale di sé. Ci fa entrare nella sfera intima della persona. Tempo luogo e azione sono quelli percepiti attraverso tale prospettiva, la lente dei sentimenti più intimi.
Quello non è l’appartamento del vecchio signore, siamo stati introdotti nella sua mente. Le pareti sono il suo perimetro esistenziale, dei suoi affetti più cari. Le parole, i gesti, i sentimenti sono quelli del tempo in cui passato e futuro si schiacciano più che mai sino ad annullarsi, quello ristretto e sospeso dell’essere pronti a partire, un’ultima volta. Le relazioni non ci sono più, nemmeno nella forma di ricordi. Restano solo come stato primigenio, solo percepito come insostituibile e irrinunciabile, bellissimo, sempre uguale e senza tempo, con il calore della mano e dell’abbraccio di una madre e di un figlio.
In un momento di lucidità finale, arriva la consapevolezza estrema e ineluttabile di fragilità, con un bisogno di protezione che, pur padri e madri, avvertiamo prima o poi e che ci riporta alla condizione di bambini, di figli di padri e madri, chiudendo il cerchio, in cui la fine è segnata dall’inizio, quanto l’inizio è segnato dalla fine. Al principio e alla fine siamo gli stessi, con gli stessi bisogni.
《Chi sono io esattamente? … Anthony? Un bel nome. Me lo ha dato sicuramente mia madre. È lei mia madre?》
《Mi sento come se stessi perdendo tutte le mie foglie … i rami e il vento e la pioggia.》
Per la straordinaria scena finale del film:
Nudi e soli, con l’invocazione alla mamma, la ricerca della sua mano e del suo abbraccio, che ci rassicuri, e l’evocazione del proprio nome quello che lei ci ha dato. La figura della madre, solo avvertita, intimamente, e il proprio nome sembrano evocare l’immane distesa del tempo, del tempo passato e che passa. Le madri e i nomi risalgono il corso del tempo, richiamano l’avo e l’avo dell’avo… e, così, sempre più indietro. Questa “potenza evocatrice”, per dirla con Thomas Mann, ci rivela la nostra identità e la nostra fragilità, che spesso non ci diciamo e confessiamo.
Fuori il tempo è bello, ma dura poco.
P.S.: Visto ieri al Cinema Grande. Sono tornato al cinema dopo diversi mesi difficili. È sempre una bella sensazione.
Sosteniamo i due esercenti cinematografici altamurani (Grande e Mangiatordi). Sono luoghi preziosi.