Il periodo è così. Di perdite e sofferenze, lacerazioni e difficoltà, indifferenza, aggressività e recriminazioni, quindi solitudini. Che poi è nella solitudine che si vede meglio l’essenza autentica delle cose e dei rapporti.
Il periodo è così. Almeno così lo avverto. Un senso di fragilità che prende e morde l’anima, prim’ancora che il corpo, che soli, ancor più se soli, si affronta.
Le nostre bacheche fisiche e mentali, pure quelle social, si affollano di ricordi, momenti e persone che non ci sono più, a cui, per vari motivi, eravamo legati, che ci hanno detto qualcosa, da cui abbiamo imparato qualcosa, che ci hanno resi, tanto, un po’, quello che siamo.
Riferimenti familiari, ideali, culturali. Quasi che nel recupero di quella memoria sia un estremo gancio con la realtà, un siamo stati quindi siamo. Nel recupero del senso del tempo, passato e che passa, in questa “durata”, la possibilità o speranza di trovare la “forma” delle cose, della propria esistenza, smarrite nel presente.
C’è anche altro, spesso, deteriore. È l’incapacità di cogliere l’importante e il buono nelle persone e in quello che incrociamo nella nostra vita, se non quando vengono a mancare. A pensarci è un tratto molto significativo dei tempi. Non è ipocrisia. Anche questa. È piuttosto la perdita della generosità, il pericoloso ripiegamento su stessi, che ci fa scoprire e dare un valore solo quando questo viene meno, quindi quando quel valore viene “conteggiato” come perdita, non in sé, ma per sé. La prospettiva è egocentrica. Ci si domanda quali sono state le attenzioni e le parole quando era il tempo? Quali le parole e attenzioni quando si era in tempo perché quelle fossero lenimento per l’altro?
A me piace il culto dei defunti. Lo pratico ogni giorno con le persone più care che non ho più, fisicamente, accanto a me. In primo luogo mio Padre e mia Madre. Il mio Maestro di vita e di diritto. E poi una serie di riferimenti, della mia formazione ideale, umana, politica e culturale. Un culto che impegna a sforzarsi di essere all’altezza dell’amore, dell’affetto, dell’orgoglio o dell’amicizia che ci riservavano da vivi. I nostri defunti non sono immaginette o santini. I sentimenti e le qualità che in loro riconoscevamo e amavamo vanno vissuti, fatti vivere, devono animare la vita quotidiana. Praticate, messe in pensieri e azioni.
Un culto vivo e vivificante perché mi ricorda costantemente che le parole, i sentimenti, l’affetto, l’amore li dobbiamo rivolgere ai vivi. A questi vanno riservati ed esternati. Alimentano le relazioni, alimentano le persone, le tengono in vita, sono impulsi di vita. Le parole, ai morti, non servono. Ai vivi, sì.
Spesso ricordo la “cecità” di Saramago: il male, l’urgenza, dei nostri tempi è l’indifferenza. Ci fa regredire a uno stato animalesco e uccide. Per questo si deve andare avanti, con la fatica della stagione, con il peso di parole negate o ingrate, con la convinzione che non basta alimentare la speranza, pratica diffusa e spesso controproducente, disturbante, distorcente. Tocca assolvere, invece, il dovere di essere speranza, per tanti, pochi, pochissimi, per una sola persona. Anche quando, quella speranza, non la si ha per sé.