È banale ribadire che non ci è dato sapere, prevedere la parabola che compie la nostra esistenza? Certo. Non è più il tempo di indovini, aruspici, àuguri. Sappiamo solo o almeno dovremmo sapere che a noi tocca fare un passo dopo l’altro, un piede davanti all’altro, con tutti i rischi connessi, cercando di saggiare il terreno prima per apprezzarne la consistenza e, nel caso, cambiare direzione.
Passato e futuro non ci appartengono. Solo un “non più” e un “non ancora”. Una consapevolezza, il passato, che ci mostra, a farne memoria, chi siamo stati e, quindi, chi siamo o possiamo essere. Un’idea, un’aspettativa, il futuro, che viene se siamo ben centrati nel presente, se facciamo il nostro, qui e ora.
Tra passato e futuro, siamo noi qui e ora. Il presente, l’unico tempo che possiamo considerare davvero nostro, perché a questo possiamo dare un contenuto e un senso, con la nostra capacità di bene dire e fare, di inventare, scoprire cercando e sortendo insieme un futuro comune.
Questa è l’unica forma di resistenza o ribellione al tempo che ci è data nell’incedere ininterrotto e inesorabile che lega le generazioni, passato e futuro. Nel presente, con la nostra opera, possiamo flettere un po’ la parabola che ci consegna il passato e che consegniamo al futuro. Possiamo affermare che, nella storia, questa possibilità ce la siamo giocata abbastanza bene, complessivamente ci ha reso migliori.
Qui, ora, siamo impegnati nel presente. Una questione di scelte. Resistenza o indifferenza. Azione o lamentazione. Liberazione dal male di cui siamo capaci e che è in noi. O rassegnazione, accondiscendènza, resa a quel male. Siamo quello che facciamo. È nell’agire quotidiano, il senso della nostra esistenza. È nell’agire nel presente che si rivela chi siamo. È nell’agire che c’è la possibilità di rialzarsi anche dopo cadute dolorose.
E poiché possiamo conoscere di quale sostanza siamo fatti, di quali energie o debolezze, virtù o difetti, come pure quale parabola possibile attende la nostra vita, dai bisogni e dalle esistenze di chi vive attorno a noi, l’augurio che faccio a me, ai miei cari, a voi Amici e Contatti, è di farci vigili, di essere attenti gli uni agli altri, di stimolarci a vicenda, di esortarci a vicenda (Lettera agli Ebrei, 10, 24-25). Che qualcuno sia presente – lui o lei a noi e noi a lui o lei – con le sue parole o con “gesti di simpatia e premura”, come li ha chiamati uno scrittore, che sono capaci di rinnovare e tenere vivo il patto di ognuno col resto della specie umana. Carezze, impulsi di vita. E l’anno sarà buono.