È tempo di cantilenare l’essenziale, affinché resti, come le strofe ascoltate da piccoli e dette dai grandi.

Già detto, già scritto. È tempo di cantilenare l’essenziale, affinché resti, come le strofe ascoltate da piccoli e dette dai grandi. Si spera restino impresse.
Le tragedie fanno emergere il meglio e il peggio delle persone, quanto, nel mondo, ci sia di buono (tanto, spesso invisibile) e di brutto, che è sicuramente il dolore, la sofferenza, la morte, la perdita, ma è anche l’emersione degli istinti, quel tratto ferino da cui, nella nostra storia plurimillenaria, ci siamo a fatica e con contraddizioni emancipati, quella dimensione in cui a prevalere sono la forza, il ringhio, la violenza, lo sguardo sospettoso nei confronti dell’altro, la chiusura nelle proprie tane e rifugi incapaci di sospettare le buone ragioni dell’altro. Il brutto è anche quel grumo irriducibile di retorica e opportunismo, banalità ed emozioni programmate, egoismi ed esibizionismi, tutto ciò che agevola, alimenta, fomenta tali istinti primordiali e oscura ciò che ci ha resi umani.
Non si tratta di non vedere la durezza e la drammaticità del momento. Si tratta di capire e far capire – soprattutto da parte di chi ha ruoli pubblici, ad evidenza pubblica, politici o di responsabilità, nell’economia, nelle istituzioni, nell’informazione, nella società – cosa la nostra storia plurimillenaria ci ha insegnato per affrontare drammi e dolori grandissimi, ben superiori a quelli che siamo ora chiamati ad affrontare. Pensate solo cosa ha potuto rappresentare per la generazione dei nostri nonni o genitori l’ultima guerra mondiale con la distruzione fisica di città, case, fabbriche, ferrovie, ecc. e milioni di morti? Capire e far capire cosa e come ci siamo rialzati dopo le numerose cadute rovinose della nostra storia? Non sono stati gli istinti (sia chiaro, umani essi stessi), il sospetto, la lotta di tutti contro tutti, il rifiuto di regole generali, la diffidenza, l’astio.
Pensate se i nostri nonni, bisnonni o genitori si fossero seduti a guardare dalla finestra o sull’uscio delle proprie case cosa accadeva al vicino?
Non ne siamo usciti indugiando sulla contemplazione di ciò che la sorte aveva consegnato, spargendo odio e rancore, sospetti e diffidenze, non ne siamo usciti scrutinando scelte o comportamenti, esternando indignazione, maledicendo gli altri, autoassolvendoci, mettendo in discussione scienza e lavoro degli altri?
No, ne siamo usciti, recuperando il senso dello stare insieme, di essere, prim’ancora che fare, comunità, la consapevolezza di una storia e la necessità di un destino comuni. Riscoprendo l’inscindibile rapporto di obblighi/diritti che ci lega, la trama di valori, elementi comuni e anche colpe e responsabilità collettive su cui si è costruito e che forma il nostro corpo sociale.
Ne siamo usciti rinnovando il nostro patto sociale e soprattutto confermando la nostra umanità, che è imperfetta e sa di esserlo, ma non si rassegna alla sua imperfezione, comodo rifugio di pavidi, inetti e opportunisti.
E non vale l’alibi del “chi non lo fa” o del “chi approfitta”, ci sono sempre stati e ciò non ha impedito a questa Nazione di risorgere, di rialzarsi.
Tocca a ciascuno di noi, ciascuno di noi soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, debitori, ciascuno di noi verso gli altri, ciascuno di noi secondo e nei limiti delle proprie possibilità.
È il tempo del dare.
È, più che mai, il tempo della responsabilità. Doveri, lavoro, solidarietà, fiducia reciproca.
È il tempo della pazienza che si richiede nell’incedere lungo il percorso che lega le generazioni, passato e futuro, nel cui di mezzo ci siamo noi.
Imperfetti, ma capaci di bene dire e fare e di inventare, scoprire cercando e sortendo insieme un futuro comune. Con intelligenza, passione, dedizione.
La Primavera è lì, fuori dalle nostre case. Strafottente, irrispettosa, ma ci indica la strada, ineluttabile, da riprendere per andare oltre la sofferenza di una stagione.
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《La morte insudicia. Insudicia quello che era pulito. Intorbida quello che era limpido. Inlaidisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso … Le prefiche che urlano al funerale ci ripugnano, questa piú bestiale delle retoriche, ma piú ancora ci ripugnano le prefiche che dalle colonne dei giornali, dagli altoparlanti della radio urlano sulle sciagure che attraversiamo e a tutte danno lo stesso grido stupido e impersonale … L’idea che piú insistente batte in questi tempi nella nostra mente è l’idea di educazione. Educare il popolo italiano. Rinettare soprattutto la sua anima affinché libera e illuminata essa possa operare nel bene, nella intelligenza e nella dignità.》
[Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città]

《È come se ci fossimo dimenticati chi siamo. Esploratori, pionieri, non dei guardiani… Un tempo, per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento. Ora, invece, lo abbassiamo, preoccupati di far parte del mare di fango.》
《Pregate di non sapere mai quanto può essere bello vedere il viso di un altro. … Lei ha dei legami, ma anche senza una famiglia le posso assicurare che il desiderio di stare con altre persone è potente. Quell’emozione è alla base di quello che ci rende umani.》
[Interstellar]