Già detto, già scritto. Sono ripetitivo, segno di quell’età in cui è tempo di cantilenare l’essenziale, o almeno quel che tale ci appare, affinché resti, come le strofe ascoltate da piccoli e dette dai grandi. Restano.
Le tragedie fanno emergere il meglio e il peggio delle persone, il buono (la dedizione del personale sanitario, dei volontari, il lavoro dei soccorritori e di chi è silenziosamente impegnato a governare un’emergenza senza precedenti, la misura del dolore di pazienti e familiari, la compostezza della fatica sovraccarica delle persone non autosufficienti, dei diversamente abili, degli anziani e dei loro familiari, di chi non aveva nulla o aveva poco e con quel nulla o poco affronta la durezza di questi giorni) e il brutto che c’è nel mondo, un grumo irriducibile di retorica e opportunismo, banalità ed emozioni programmate, egoismi ed esibizionismi.
Da quel buono dovremmo recuperare un alfabeto collettivo e politico. Una rinnovata pedagogia. Doveri, responsabilità, lavoro, l’appagante durezza del lavoro. Il sapere contadino ci ha educato e ci dovrebbe educare tutti al faticoso attendere ai propri doveri, in attesa di un raccolto del tutto incerto, spesso ingrato. Tocca, a ciascuno di noi, secondo e nei limiti delle proprie possibilità.
Quel sapere ci dovrebbe educare ad apprezzare, trepidanti, il lento e silenzioso fiorire delle cose, frutto di un lungo lavoro, una “teoria” di azioni quotidiane, che, se vogliamo assicurare futuro e progresso alle nostre comunità, dovrebbe interessare più della semplice e indignata contemplazione di ciò che il passato e l’esistente ci consegnano.
Questo tempo sospeso lascia meglio decantare le domande che contano, almeno quelle ossessivamente rimbalzano nella mia mente da tempo, nella mia età fisica e politica, quelle che vanno oltre la dimensione biologica della nostra esistenza, che pure prepotentemente è nel nostro angusto orizzonte delle nostre case, di queste giornate.
Sappiamo ancora cosa significhi vivere insieme, quale inscindibile rapporto di obblighi/diritti implichi, quali siano gli anelli che ci legano, quale trama di valori, elementi comuni e anche colpe e responsabilità collettive ci sorregga?
È ancora viva la memoria del dolore, della perdita, del trauma che portarono a liberarsi, cioè a ritrovarsi come comunità, consapevole di una storia e di un destino comuni?
La tragedia collettiva in corso può spezzare nuovamente il cuore, indurito, da tempo, e così riscoprire la sua verità nascosta e dimenticata, la sua memoria svanita e con essa la nostra capacità di cogliere il segreto delle cose, oscenamente coperto da lazzi, grida, parole vuote di senso e cariche di risentimento, sospetto, rancore, odio, diffidenza, paura?
Perché, senza la riscoperta di quel segreto, il segreto dello stare insieme, viene meno assieme al nostro corpo, a quello dei nostri cari, anche la capacità di immaginarci un futuro, insieme in un futuro. Che poi è come morire.
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Per quel che può contare i miei pensieri quotidiani sono per quanti sono in prima linea con il dolore e la sofferenza, lavorano, a rischio del proprio, per la salvezza dei nostri corpi e, forse non lo sanno, del nostro corpo sociale.