Piango il mio Maestro, il Professore Michele Costantino, che mi ha insegnato che il potere dell’Uomo è quello «di creare o di distruggere i rapporti, cioè le relazioni tra sé e i propri simili. Il potere di essere leali o sleali, di mentire o di essere sinceri, di fare buone o cattive azioni, cioè azioni utili a se stessi e agli altri, oppure dannose. In parole povere, il potere di amare oppure diodiare il prossimo. … Chi ha quel potere può credere di poterlo esercitare secondo le sue voglie e di essere onnipotente per questa ragione. Ma nelle condizioni del tempo e dello spazio ci sono gli “altri”, con i quali bisogna fare i conti quando si sceglie come esercitare quel potere. La scelta non è indifferente. Le conseguenze arrivano fino al più piccolo degli “altri”».
Piango il mio Maestro, di vita e di diritto. La sua morte mi priva della sua intelligenza mai accomodante, del suo sguardo lungo, della sua radicalità che lo spingeva ad indagare la “radice” dei rapporti e delle cose oltre luoghi comuni e retorica estetizzante o banalizzante. La sua morte mi priva delle sue conversazioni, della sua ironia, delle sue invettive, dell’affetto che mi faceva apparire ai suoi occhi migliore di quello che sono. Ma la morte – un attimo tra il prima e un dopo che non conosciamo, come diceva – non è solo dolore, privazione, è anche altro per i vivi. È il contrario dell’orrore del vuoto, della fine. È l’esaltazione della vita, della nostra capacità di operare bene e di costruire relazioni, giorno dopo giorno. Il culto dei defunti impegna a non spezzare la lunga catena che unisce le generazioni («Ognuno di noi – scriveva in una Prefazione il mio Maestro, richiamando Seneca – è l’anello di una catena lunga lunga»).
Piango il mio Maestro. Il suo bel ricordo, il suo esempio, la sua eredità di affetti, mi impegnano ad essere all’altezza della stima, dell’orgoglio e dell’affetto che mi riservava da vivo.
All’opera, dunque, oggi, come ieri, perché la condizione umana – ricordava sempre il mio Maestro – è nell’opera.
Piango il mio Maestro, di vita e di diritto. La sua morte mi priva della sua intelligenza mai accomodante, del suo sguardo lungo, della sua radicalità che lo spingeva ad indagare la “radice” dei rapporti e delle cose oltre luoghi comuni e retorica estetizzante o banalizzante. La sua morte mi priva delle sue conversazioni, della sua ironia, delle sue invettive, dell’affetto che mi faceva apparire ai suoi occhi migliore di quello che sono. Ma la morte – un attimo tra il prima e un dopo che non conosciamo, come diceva – non è solo dolore, privazione, è anche altro per i vivi. È il contrario dell’orrore del vuoto, della fine. È l’esaltazione della vita, della nostra capacità di operare bene e di costruire relazioni, giorno dopo giorno. Il culto dei defunti impegna a non spezzare la lunga catena che unisce le generazioni («Ognuno di noi – scriveva in una Prefazione il mio Maestro, richiamando Seneca – è l’anello di una catena lunga lunga»).
Piango il mio Maestro. Il suo bel ricordo, il suo esempio, la sua eredità di affetti, mi impegnano ad essere all’altezza della stima, dell’orgoglio e dell’affetto che mi riservava da vivo.
All’opera, dunque, oggi, come ieri, perché la condizione umana – ricordava sempre il mio Maestro – è nell’opera.
Enzo Colonna / 5 agosto 2013 /