Se vuoi protestare, se non hai lavoro o casa, fallo, è sacrosanto, ma centra il problema e l’obiettivo.
Se vuoi protestare, fallo con i forti, vai sotto i Palazzi del potere, vai dove si prendono decisioni. Non farlo contro chi, nella sua vita, non ha mai contato nulla per nessuno, altrimenti non sarebbe certamente qui a prendersi anche le tue maleparole.
P.S.:
Nel merito. Un Comune che sa da mesi del possibile arrivo di qualche decina di migranti e profughi, si attrezza in tempo, per evitare scene di questo tipo o guerre tra disperati di vario grado e genere. Spiega ai cittadini altamurani la situazione, illustra numeri e ragioni, condivide soluzioni, evita, soprattutto, che ottanta persone, qualunque sia la nazionalità, siano confinate da un giorno all’altro in una palazzina. Un’ospitalità diffusa, per piccoli nuclei, magari familiari, non avrebbe creato allarme o reazioni, sarebbe stata più agevolmente compresa e accettata in una città che storicamente ha accolto tutti i “forestieri” e in cui, oggi, ben oltre il 5% della popolazione residente è di immigrati, nella stragrande maggioranza, perfettamente integrati.
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“Il paradiso sta in ogni accoglienza e sta accanto all’inferno, a portata di mano tutti e due.”
[ http://www.ilfattoquotidiano.it/…/paradiso-erri-de…/1489596/]
Il paradiso secondo Erri De Luca: un giardino irrigato che si chiama accoglienza
“Vai, vattene dalla tua terra”. Questa frase fa parte del racconto sacro in un libro che ha presso di noi il titolo di “Genesi”. Un uomo abita tra i grandi fiumi dell’odierno Irak. La voce che si scaraventa nel suo udito con quella frase, lui la riceve per la prima volta. Non si volta per vedere da dove proviene. Non sobbalza. Quando arriva all’improvviso l’urgenza di una chiamata, è come se aspettata. L’uomo si chiama Abramo e risponde: “Eccomi”. Non è possibile altra risposta e s’incammina.
Inizia così un vagabondaggio senza fine, portandosi dietro il piccolo seguito di affetti e di beni. Va verso occidente senza una mèta ferma, accampandosi presso luoghi altrui. Ovunque si sistemi, ecco che aumentano i suoi beni e prospera il luogo che lo accoglie. Sara, sua moglie, la prediletta fin dalla gioventù, è zingara anche lei, pronta a fondare casa intorno al fuoco acceso della sera e spento all’alba prima di partire. Il suo rammarico non sta nel disfare e rifare bagagli, ma nel grembo chiuso, privo di gravidanza.
Un giorno all’ombra di un bosco di querce suo marito scorge dei viandanti e va loro incontro per invitarli alla sua ombra. Vengono dal viaggio sotto il sole a picco e accolgono il ristoro. L’ospite offre acqua e mensa, parla con loro e ascolta. C’è sempre da imparare dai viaggi degli altri, da scambiarsi il coriandolo di usi e di costumi. Al termine della visita i tre viandanti si sdebitano generosamente, annunciando alla donna una prossima gravidanza. Sara è già in là negli anni del ciclo prosciugato. Perciò ride, a scroscio, a garganella, da non potersi trattenere. Nemmeno ricorda da quanto tempo manca alla sua bocca la risata. È quella che le schiude il grembo, il sussulto festoso del diaframma che serve da scintilla e da zampillo.
La storia prosegue con la sua gravidanza, la nascita del figlio che si chiamerà col verbo di quel giorno : “Riderà”. Isacco, nella sua lingua Itzhàk, vuol dire : “Riderà”. Come suo padre Abramo sarà esperto di idraulica, scavatore di pozzi, capace di scoprire e inaugurare sorgenti nuove in terre di siccità. L’acqua è la risata della terra, la sua fecondità. Abramo e lui, stranieri ovunque, moltiplicano il verde nelle patrie altrui. Chi accoglie il forestiero, in quella storia scritta a fondamento della civiltà, è benedetto da fertilità.
A una pagina che mi chiede di nominare il paradiso, scrivo di uno terrestre e con la p minuscola. Consiste nel permesso di viaggio che fanno sulla faccia della terra i migratori: insetti, pesci, uccelli e in ultimo i mammiferi. Consiste nello spazio sgombero di frontiere, dove neanche le montagne fanno sbarramento. Il Sinai è al contrario il più solenne degli appuntamenti. Per tradizione da noi si considera sacra una storia di persone che attraversano deserti con la casa in spalla, spinti da carestie, da esili, da diluvi. Si considera sacra una storia fondata su accoglienze ricambiate da benefici di prosperità e fertilità. Ma quella storia se ne sta ben chiusa nel recinto del culto, della cerimonia, senza permesso di traboccare, spargersi a catinelle come una pioggia, come una risata.
Nostro tempo presente sono le barriere, i muri dentro i quali accatastare vite di viandanti, viaggiatori perfetti perché senza biglietto di ritorno. Nostro tempo è attesa di lasciapassare, a puro spreco di energie compresse, trattenute al macero. Nostro tempo presente è il mare della civiltà mediterranee gonfiato di annegati più di qualunque guerra marinara, più di ogni tempesta. Tempo presente è la paura soffiata intorno al bastoncino dello zucchero filato, la paura vuota verso il forestiero di passaggio, che poggia a terra il suo bagaglio per tirare il fiato.
Così vado a cercarlo in una storia scritta nell’altroieri di tremila anni, il paradiso possibile e terreste. E uso per lui il modo indicativo e il tempo presente, perché lì dentro quella storia dura e si rinnova agli occhi di ogni generazione. Scorgo quel paradiso, quel giardino irrigato in mezzo a siccità, in qualunque mossa di benvenuto, di saggio invito all’ombra, misteriosamente ripagato con sovrabbondanza.
Il paradiso sta in ogni accoglienza e sta accanto all’inferno, a portata di mano tutti e due.
di Erri De Luca
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 2 marzo 2015