Non so se mai riusciremo a riprendere le nostre vite, nel senso di riprendere a occuparci della vita reale e non di quello che ci viene confezionato e somministrato come titolo per un gioco dei mimi. Sono scettico, vista la china presa da tempo con gli attuali strumenti di comunicazione in cui il dibattito non si evolve e non aiuta a evolversi e si riduce ad un confronto gridato di slogan e tifoserie, di numeri di like e cuoricini.
Ora un titolo, ora un altro e ciascuno, per ciascuna parte, è pronto a mimare. Sino a che non si passa al titolo successivo e il precedente, in un paio di giorni, è superato e dimenticato. E così via. In una continua spettacolarizzazione di temi, problemi, diritti, che esigono, invece, confronto civile, anche duro, e argomentato per far crescere consapevolezza e determinare progresso. Servirebbero costanza, forza e coraggio che non sono nello sfruttare una vetrina mediatica per alimentare, con calcolo, reazioni emotive e programmate, share e follower, spazi ulteriori conquistati nella bolla social, lacerazioni e slogan, quindi ulteriore impoverimento e imbarbarimento.
Anni di superficialità, banalità e banalizzazioni, presenzialismo, cialtroneria, slogan e propaganda, assenza di studio e umiltà, senza rispetto dell’altro che conquista rispetto di sé, anni di mortificazione della cultura, del lavoro e del merito, povertà di esperienze di lavoro e di vita vissuta, una mistura informativa, politica, culturale, offerta a buon mercato, “gratis”, hanno diffuso l’idea che i problemi, aggravati da quei tratti, possano essere risolti con un colpo (di magia, di genio, di teatro), con qualche slogan o frase fatta, con l’evocazione di diritti ridotta a esercizio di retorica o propaganda, e non, come sappiamo dalla vita “reale”, con lavoro, serietà, studio, umiltà, responsabilità, lasciati sedimentare con pazienza giorno dopo giorno.
Tutto questo ha cause e radici profonde, non è determinato da questo o quel partito o movimento, non è frutto di ignoranza. È ormai un abito mentale, per inconsapevolezza, postura, egocentrismo, pigrizia, convenienza, calcolo, pavidità, comodità. In pochi riescono, con fatica, a sottrarsi, e vengono visti come ‘disadattati’.
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«… arroganza, convinzione cieca, una ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto secondo me è che il mantra delle scienze umanistiche – “insegnami a pensare” – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere appena un po’ meno arrogante, avere un minimo di ‘consapevolezza critica’ riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.
Ecco un esempio dell’erroneità assoluta di una cosa di cui tendo a essere automaticamente certo. Tutto nella mia esperienza diretta corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo, la persona più reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente questa forma di naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è disgustosa anche se, sotto sotto, ci accomuna tutti. È la nostra modalità predefinita, inserita nei circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non avete vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo schermo del televisore o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli altri devono esservi comunque comunicati, i vostri invece sono così vicini, pressanti, reali. Insomma, ci siamo capiti. Ma state tranquilli, non mi preparo a tenervi una predica sulla compassione, l’eterodirezione o tutte le altre cosiddette ‘virtù’. Non è questione di virtù quanto della scelta di impegnarmi a modificare o a tenere a freno la mia naturale modalità predefinita, che è per forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica, e vede e interpreta tutto attraverso la lente dell’io. Le persone capaci di adattare a tal punto la loro modalità predefinita sono spesso considerate l’esatto opposto dei ‘disadattati’, termine che, vi posso assicurare, non ha niente di casuale.
Dato il contesto accademico è naturale domandarsi fino a che punto questo adattamento della modalità predefinita coinvolga il sapere o l’intelletto. La risposta, com’è prevedibile, è che dipende da che cosa intendiamo con sapere. La conseguenza forse più pericolosa di una cultura accademica, almeno nel mio caso, è che legittima la mia tendenza a essere cerebrale, a perdermi nelle astrazioni anziché prestare semplicemente attenzione a quello che mi succede davanti agli occhi. Anziché prestare attenzione a quello che mi succede dentro. Sono sicuro che ormai saprete quanto sia difficile tenere alta la soglia di attenzione e non farsi ipnotizzare dall’ininterrotto monologo che si svolge dentro la testa. Quello che ancora non sapete è quanto sia alta la posta in gioco.
Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche “insegnano a pensare” in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. “Imparare a pensare” di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo padrone.»
[David Forster Wallace]