Arrival

Che bel film, ieri su Rai Movie. #Arrival del regista #DenisVilleneuve. Avevo preso qualche appunto ieri notte, ma solo ora sono riuscito a mettere in ordine. Arrischiando una personale classifica, solo un gradino sotto a Interstellar, per restare nel genere fantascienza. Una linguista e un fisico sono chiamati a capire se gli extraterrestri, arrivati sulla terra con dodici grandi astronavi di forma ovoidale (una sorta di monolito scuro), hanno intenzioni pacifiche o se rappresentano invece una minaccia per l’umanità. La prima, in particolare, si spende a costruire una comunicazione con le creature aliene. A superare e rompere le barriere che impediscono la comunicazione, quindi la reciproca comprensione.
I muri, anche invisibili ad occhio (come nel film), sempre muri restano. Anzi, più subdoli.
Paure, insicurezze, debolezze sono macigni, (come il compatto monolito che dava forma alle astronavi). Ostacolano la conoscenza, la percezione, l’incontro, gli abbracci fecondi. Opprimono la nostra esistenza e soffocano le nostre energie.
Muri e macigni, difese istintive, primordiali, quindi comprensibilissime, con cui dobbiamo fare i conti. Prenderne consapevolezza è il primo passo per liberarsene. I muri cedono e i macigni si sgretolano appena comprendiamo la lingua degli altri, i loro segni, i loro segnali, se comprendiamo i loro bisogni, se adottiamo la loro prospettiva. La rimozione dei muri e dei macigni consente a noi di essere liberati, più che agli altri di avere ingresso.
Il linguaggio è di ascolta e non di chi parla, ricordava sempre il mio Maestro. Entrare in contatto significa imparare la lingua, i segni dell’altro. Con la lingua, si inizia a pensare e sentire come l’altro, quindi a com-prenderlo.
E gli “alieni”, gli altri del film, conoscono la fine di una frase mentre stanno scrivendo. I loro segni esprimono il tutto, l’inizio e la fine, un unicum pensato e scritto simultaneamente. Inizio e fine si tengono. Non meno dell’inizio, la fine segna il tratto che unisce inizio e fine.
Anabasi e catabasi, dicevano i greci antichi. Inizio e fine si modellano a vicenda in una sequenza circolare, un perpetuum mobile. Dall’inizio alla fine. Dalla fine all’inizio. Come il nome palindromo della figlioletta Hannah, che dal futuro, con il dramma della sua malattia e morte, segna il presente della linguista. E quest’ultima accetta si faccia futuro e diventi la sua vita, nonostante il carico di dolore che comporta.
È così, la fine è nota! E non vale solo per gli “alieni”! È una consapevolezza che acquisiamo con il tempo, con il farsi della vita, e che ci sforziamo di negare a noi stessi il più a lungo possibile. Ma la fine ci è nota.
Questa presa di coscienza, la presa in carico della nostra finitezza e del relativo dolore, il rapporto con la morte, sono destinati a cambiare la nostra relazione con la vita stessa, con chi amiamo, con gli altri, non nel senso (banale e impossibile) di riuscire a cambiare il corso del cose, il finale, ma nel senso di consentirci di apprezzare il nostro divenire, il farsi, la vita, il tratto che unisce inizio e fine.
Questa consapevolezza ci induce a uno sguardo indulgente con i nostri e altrui limiti, a diventare umili. Questo atteggiamento ci apre alla vita, non alla morte. Ci apre agli altri, che condividono con noi la medesima sorte, ci fa esprimere più forte e più spesso quello che sentiamo e dare il meglio in quello che facciamo. Sappiamo che finirà e come finirà, ma accettando umilmente questa limitatezza, nostra e degli altri, recuperiamo il senso della vita, la capacità di dare valore a ogni momento, tanti punti, gli infiniti punti di una linea finita. Tutti unici, quindi preziosi. E con questa capacità, la virtù di fare di ogni momento, uno sempre nuovo, di scoperta, di incontri e abbracci rinnovati.
Ho ritrovato in questo film quel senso del “tempo breve” su cui sono tornato più volte negli ultimi anni e anche in un libriccino (sulla mia ultima esperienza) che spero presto, quando potremo incontrarci, metterò a disposizione di chi lo desideri. È il senso pieno e recuperato del presente, l’unico tempo che ci è dato e che spesso sprechiamo voltando la testa al passato o tendendola verso un futuro che non ci appartiene, se non come programma. Un presente che è il farsi quotidiano, concreto e faticoso, che conquista e si fa futuro.
Se ci pensiamo, questo senso del tempo, la consapevolezza della sua finitezza, che
è l’elemento caratterizzante della condizione umana, motiva, impegna, rende migliori
noi e intensi i nostri tentativi. È una sorta di lasciapassare per la serenità. Rende il nostro tempo sempre nuovo, di origini e di esordi, di curiosità e aperture, e più lieve la fine
stessa, la perdita, perché perdita non è e non è stata.
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《Nonostante io conosca il viaggio e dove porterà, lo accetto. …
Se potessi vedere la tua vita dall’inizio alla fine, cambieresti qualcosa? Esprimerei più spesso quello che sento.
Ho passato la vita a testa in su a guardare le stelle, però la più grande sorpresa non è stata incontrare loro, è stata incontrare te.
Mi ero dimenticata di come è bello quando mi abbracci.》
Scena finale di “Arrival” da qui: