SE QUESTA È SCUOLA

Cos’è la scuola? Senza gli abbracci e i baci delle insegnanti, senza le loro carezze e i loro salutari ceffoni (ahimè, rimossi dal nomismo didattico-pedagogico degli ultimi decenni)? Senza le merende condivise a morsi con gli amici, senza le penne scambiate e i quaderni sottratti al compagno di banco? Senza i suggerimenti veicolati con un soffio nell’orecchio, senza i bigliettini passati di mano in mano? Cos’è la scuola senza i sorrisi celati dalle mascherine, con i singhiozzi soffocati nel tessuto non tessuto? Senza i nonni, che proteggiamo in casa, ad aspettare i nipotini all’uscita da scuola?
Cosa resta della scuola senza i tappi sbertucciati da denti alieni e ritrovati nell’astuccio, senza il fiatone e il sudore delle giocate in palestra? Senza la gocciolina di saliva che insolentisce e tradisce la spiegazione del professore planando sul banco in prima fila? Cosa resta, con classi decimate da quarantene e isolamenti domiciliari, lezioni sacrificate dalle assenze dei docenti, anch’essi fragili o alle prese con ansie e fragilità domestiche?
È scuola, questo costrutto di protocolli, circolari, patti e liberatorie, tamponi e referti medici, di procedure, patemi, igienizzazioni, sanificazioni?
È “aperta” una scuola così? O ne è un’idea astratta, pallida immagine che ne serbiamo più che realtà. Più rifugio retorico per acquietare le nostre cattive coscienze adulte che, per i nostri figli, esperienza di vita reale, più immagine di allievi in batteria che comunità in cui parole e gesti di premura, attenzione e simpatia si fanno istruzione, formazione, sentimenti?
Con dolore, mi sono convinto che sarebbe meglio mettere fine a questa ipocrisia, fare i conti con la realtà, con questo simulacro senza corpi e anima, sospendendo e passando tutti ad una più regolare didattica a distanza, a cui tutte le istituzioni dovrebbe dedicare energie per assicurare il massimo di efficienza e garantire l’accesso a tutti. Se fossi io a poter decidere, forse lascerei in presenza solo le prime classi dei tre cicli (elementari, medie, superiori).
Per il resto, a noi genitori in primo luogo, credo che spetti il compito/tentativo di trasformare questa fase, così difficile, inedita, in un’occasione didattica preziosa per i nostri figli, un periodo – in sé, con le sue difficoltà, asprezze, ansie, dolori – di formazione, di emancipazione (anche tecnologica). Per dirla, con Antonio Gramsci (i Maestri sono per sempre!), un periodo di “speciale tirocinio psico-fisico… muscolare-nervoso, oltre che intellettuale”, “un processo di adattamento, un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”. Occorre, anche ora, qui, “resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”.
Animo, forza!
* * *
《Si affatica, è certo, e bisogna trovare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più. Ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè a un tirocinio psico-fisico. Anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche muscolare-nervoso, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. La quistione è complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionale di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psico-fisico; egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini familiari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini e di un contadino già sviluppato per la vita rurale. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un “trucco” a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuol dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un “trucco”. In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle più grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite.》
[A. Gramsci, Quaderni del carcere, 4, 32-bis]