Noto in alcuni commenti al testo che ho postato ieri [da qui: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10223220697296596&id=1558501860] e, in generale, nel dibattito in corso da tempo sull’emergenza covid, a tutti i livelli, il riflesso condizionato di una cultura che ormai impera e che ci è stata inculcata da molto tempo.
Guardare, interpretare e voler plasmare la realtà dal proprio, unico ed esclusivo, punto di vista. Dal proprio IO. Abbiamo perso la capacità di comprendere, fare nostre, le ragioni dell’altro, di affrontare la realtà come insieme composito, articolato, complesso, in cui ci siamo noi insieme agli altri, con i rispettivi vissuti, bisogni, aspettative, fragilità e virtù.
O recuperiamo questa idea dell’insieme o saremo condannati a recitare un ruolo che ci porta contrapporre interessi, diritti, bisogni. Una lotta senza senso e senza esito, se non una sconfitta per tutti. Un corpo sociale è un corpo vivo se tutte le sue componenti sono rispettate e non vanno in sofferenza. Una comunità, una società è questo punto di equilibrio. La nostra dimensione è operare affinché questo punto di equilibrio si raggiunga e si mantenga. È uno sforzo quotidiano.
Non mi dite che non sappiamo di cosa sto scrivendo, cosa sto cercando di esprimere, che poi è quello che ho cercato di esprimere, negli anni, con i miei, parziali e inadeguati, tentativi di agire pubblico. Non mi dite che non ne siamo capaci. Perché è esattamente quello che sappiamo fare e facciamo tutti giorni nelle nostre famiglie, per molti nelle proprie attività (un’impresa, un ufficio, una classe a scuola o all’università, un gruppo di veri amici e compagni).
In presenza di una difficoltà o di una fragilità, tutto il gruppo (familiare e no) adatta i propri comportamenti e le proprie scelte. Non si fa finta di nulla, non si pretende che tutto possa procedere come se nulla fosse, come se quella fragilità o difficoltà non ci fosse, o che quella difficoltà o fragilità sia presa in carico da altri. Nessuno si sottrae. Si condivide, ci si fa, ciascuno e secondo le proprie possibilità e capacità, parte diligente con tutti gli altri ad affrontare difficoltà, a compensare fragilità. Chi non lo fa è fuori. Fuori da una famiglia, da un’organizzazione lavorativa, da una comitiva o associazione. Perché i problemi, le difficoltà, le fragilità di uno, sono i problemi, le difficoltà, le fragilità di tutti e perché sappiamo che quei problemi, quelle difficoltà e fragilità, prima o poi, toccheranno a tutti, a ciascuno di noi. Prima o poi! E per chi si scopre improvvisamente, con le proprie difficoltà e fragilità, a non poter contare su quella rete familiare, affettiva, relazionale, in cui era inserito, la delusione e lo smarrimento sono profondi, è una solitudine che sa di fine.
Beh, cosa pensate, pensiamo, sia un corpo sociale, una comunità cittadina o statale, se non questo, in altra scala, con ben altre complessità?!
Se in una famiglia c’è la mamma anziana con difficoltà di movimento o il papà allettato con un tumore, che facciamo, ce ne freghiamo? O, tutti i figli, dedicano risorse economiche per le cure, si organizzano per seguirli nelle cure e terapie, nelle incombenze quotidiane, nel far loro compagnia, per assisterli fanno i turni, anche nei periodi di ferie? Se nostro figlio è febbricitante, che facciamo, organizziamo la festa con amici, andiamo in pizzeria? Se un compagno di lavoro ha difficoltà perché segue le terapie di un familiare disabile o ammalato, non gli andiamo incontro sostituendolo al bisogno o con una diversa articolazione dei turni di lavoro?
Non so, non credo ci sia qualcosa di incomprensibile in tutto questo. E allora perché facciamo finta di non capirlo se l’ordine dei problemi e delle difficoltà investe un intero corpo sociale e ce ne andiamo dietro ai nostri impulsi, ai nostri egoismi, alle nostre teorie o soluzioni, più o meno legittime o balzane, e ciascuno racconta la propria storia, come fosse un duello western, o IO o TU?
La questione, perché non ci sono soluzioni assolute e generali, torna alla sua essenza che non è un fatto di scienza, di schieramenti politici, di istituzioni, di ruoli e distintivi, di leggi scritte e protocolli. È una questione che attiene alla nostra natura, che interroga la nostra umanità.
Viviamo nell’incertezza, la nostra vita è incertezza. Con questa dobbiamo imparare a vivere. È la nostra natura, che è fragile, vulnerabile, complessa.
A questa naturale e ineludibile fragilità non si risponde con schemi binari. Io o tu, noi o voi, maschio o femmina, on od off, dentro o fuori e, per stare al tema che ci occupa, chiusura o apertura, negazionisti o allarmisti, tamponi sì o tamponi no, lockdown sì o lockdown no, ecc.
La risposta sta, anch’essa, nella nostra natura, nelle capacità che agli esseri umani sono state assegnate e non ad altri esseri viventi e che ci rendono unici, quindi preziosi. La capacità di sapere, la conoscenza, che ci consente di evitare il male evitabile. La capacità di essere virtuosi, cioè di fare e agire bene, di amare e essere amati, di costruire relazioni che superano e sublimano l’io e il tu.
Queste capacità sono la nostra forza e ci consentono di convivere con le nostre fragilità, perché ci consentono di conoscerle e di affrontarle elaborando le nostre caratteristiche, con i nostri comportamenti, le nostre scelte.
Per stare al tema, questo significa, a mio parere, vedere e riconoscere che c’è un problema nel nostro corpo sociale, anche se dovesse presentarsi in termini gravi, a volte devastanti, per un numero limitato di persone (si dice il 5%!).
Che facciamo? Facciamo finta di nulla, ce ne freghiamo? Giochiamo “a chi tocca tocca” e cavoli suoi? Pensate, il 5% della popolazione altamurana fa 3500 persone, tra di noi, vicino a noi, oggi non noi ma domani forse sì, probabilmente sì, nelle nostre famiglie di cui, amorevolmente, ci interessa solo!!
O, per quella nostra capacità e forza, facciamo in modo di evitare il male evitabile e di affrontare il problema individuando e salvaguardando le priorità del momento, adottando accorgimenti e adattando i nostri comportamenti, modificando un po’ i nostri stili di vita per qualche mese, ridimensionando l’esposizione piena del nostro IO (magari questa la lasciamo confinata ai confronti elettorali, alle dispute di genere, ecc.)?
Credo che la risposta ce la abbiamo noi, in noi, senza che qualcuno ce la venga a suggerire o imporre (ammesso che ne abbia possibilità, voglia e capacità). La risposta è nell’adattare, alle circostanze di bisogno e allo stato di necessità che viviamo, i nostri comportamenti, come mi permettevo di suggerire ieri. Senza rinunciare all’essenziale, senza penalizzare alcuno, ma sforzandosi, tutti, di prendere in carico, in piccola parte, ciascuno per le proprie possibilità e capacità, le difficoltà e fragilità del nostro corpo sociale.
Ciò, ovviamente, non esime dall’esercizio dei doveri, dall’agire con decisione, senza calcoli, convenienze e opportunismi, chi ha ruoli istituzionali e di responsabilità collettiva. Governare, fare politica, non è né facile, né comodo. Nessuno è obbligato a farlo, ma qualcuno deve pur farlo. A ciascuno, il suo.
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“La natura umana è fragile… qualcosa che nonostante la sua fragilità possiede una particolare bellezza perché inseparabile dalla sua intrinseca debolezza.”