Michele è il nome di mio figlio, mio padre, mio nipote, di persone che hanno segnato la mia formazione e il mio percorso di vita. Nella mia famiglia il nome Michele unisce le generazioni. Ci sono poi tanti amici e conoscenti a cui vanno i miei saluti, come pure ai Raffaele, ai Gabriele. Anche nelle loro declinazioni femminili.
Quel nome evoca nella mia mente, nella mia memoria, l’immane distesa del passato, del tempo passato e che passa. Tutti i nomi risalgono il corso del tempo, richiamano l’avo e l’avo dell’avo… e, così, sempre più indietro.
Il nome Michele, poi, vuol dire: «Chi come Dio?»
E nei nomi – scriveva Thomas Mann – è “sempre insita una misteriosa virtù ed il suo possesso sembra che ci dia una potenza evocatrice”.
Il confronto con questa potenza evocatrice del nome aiuta a ricordare che non siamo infallibili, la nostra fragilità.
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E “il giovane Giuseppe provava un senso di vertigine, come noi quando ci sporgiamo sull’orlo di un pozzo”, perché “il suo desiderio di dare un principio a quel passato, di cui si sentiva parte, incontrava la stessa difficoltà che sempre incontrano gli sforzi di tal genere: la difficoltà di risalire alle origini. Non essendo nessuna cosa nata da sé, ma avendo ognuna un padre, essa ci riporta indietro, in un fondo più fondo, nelle profondità primordiali e negli abissi del passato”. Così la ricerca di un punto fermo cui agganciare la nostra identità umana conduce “ai sotterranei abisso del passato” ed ogni figura incontrata nel nome induce a “lasciarci sospingere indietro, di prospettiva in prospettiva, sempre più indietro, verso una nuova quinta di sabbia, all’infinito”.
(Thomas Mann, “Giuseppe e i suoi fratelli / Le storie di Giacobbe”)