AI RESISTENTI DI IERI E DI OGGI, GRAZIE!

Per me, il 25 aprile è testimonianza.
È testimonianza della nostra capacità di resistere e vincere male e sopraffazione, dolore e violenza, istinti animali e indifferenza, indolenza ed egoismo.
È testimonianza di cosa è capace l’Uomo: distruggere o creare, fare bene o fare male, alimentare rapporti o soffocarli nel mare del proprio “io”.
Ci ricorda cosa siamo, di quale sostanza, di quali virtù e difetti, di quali capacità, qualità o debolezze.
Ci ricorda chi siamo stati e chi, quindi, siamo o possiamo essere.

Dipende da noi. Una questione di scelte. Resistenza o Indifferenza. Azione o Lamentazione. Liberazione dal male di cui siamo capaci e che è in noi. O Rassegnazione, Accondiscendènza, Resa a quel male.

Il 25 aprile è rito collettivo, in cui ci si rinnova reciprocamente l’impegno quotidiano, personale e collettivo, per un “presente e futuro” all’altezza di quello conquistato dai nostri bisnonni, nonni e padri, ricercando, scoprendo e confermandosi reciprocamente – con generosità, fatica e pazienza, perché ogni relazione ha bisogno di generosità, fatica e pazienza – la necessità di stare insieme, di sentirsi una Comunità, un Popolo.

Esige una risposta da ciascuno di noi. Non c’è libertà senza gli altri. Non è libertà se la intendiamo come liberazione dagli altri.
Il 25 aprile richiama all’impegno del presente nel presente, a vivere il meglio del presente e a viverlo al meglio, unico modo di occuparsi del futuro, unica forma di sua costruzione.
Ci chiama all’opera: impegna noi tutti a tener fede al patto che ci lega e che lega le generazioni, quelle del passato e quelle future, unite nella Memoria, nella Nazione.

Guardate, riporto la mia esperienza, comune a tutti voi, forse solo più intensa e articolata per essere stato, per il ruolo svolto, inevitabilmente punto di riferimento, sfogo, sollecitazione, critica, informazione, ultima istanza di bisogni e risposte. Il periodo in cui cade questo venticinque aprile mi ha consentito, molto più di altri periodi, che ha minato certezze, illusioni e false sicurezze, di vedere tutta la grandezza e la piccolezza di cui siamo capaci.

Davvero le tragedie, ho ripetuto spesso in queste settimane, fanno emergere il meglio e il peggio delle persone, quanto, nel mondo, ci sia di buono (tanto, spesso invisibile) e di brutto, che è sicuramente il dolore, la sofferenza, la morte, la perdita, ma è anche l’emersione degli istinti, da cui, nella nostra storia plurimillenaria, ci siamo a fatica e con contraddizioni emancipati, quella dimensione in cui a prevalere sono la forza, il ringhio, la violenza, lo sguardo sospettoso nei confronti dell’altro, la chiusura nelle proprie tane e rifugi incapaci di sospettare le buone ragioni dell’altro. Il brutto è anche quel grumo irriducibile di retorica e opportunismo, banalità ed emozioni programmate, egoismi ed esibizionismi, assenza di empatia e solidarietà, tutto ciò che agevola, alimenta, fomenta tali istinti primordiali e oscura ciò che ci ha resi umani.

Di questa “ritrovata visione” del reale e dell’umano, bisogna far tesoro. È il “buono” che dobbiamo ricavare da questa drammatica esperienza collettiva.

Il discorso vale per tutti, in particolare e soprattutto per chi ha ruoli pubblici, ad evidenza pubblica, politici o di responsabilità, nell’economia, nelle istituzioni, nell’informazione, nella società.

Si tratta di capire e far capire cosa la nostra storia plurimillenaria ci ha insegnato per affrontare drammi e dolori grandissimi, ben superiori a quelli che siamo ora chiamati ad affrontare, cosa e come ci siamo rialzati dopo le numerose cadute rovinose della nostra storia. Non sono stati gli istinti (sia chiaro, umani essi stessi), il sospetto, la lotta di tutti contro tutti, il rifiuto di regole generali, la diffidenza, l’astio, esibizionismo, invidie, opportunismo. Non ne siamo usciti indugiando sulla contemplazione di ciò che la sorte aveva consegnato, esternando indignazione, maledicendo gli altri, autoassolvendoci, mettendo in discussione il lavoro degli altri.

No, ne siamo usciti, recuperando il senso dello stare insieme, la consapevolezza di una storia e la necessità di un destino comuni. Riscoprendo l’inscindibile rapporto di obblighi/diritti che ci lega, la trama di valori, elementi comuni e anche colpe e responsabilità collettive su cui si è costruito e che forma il nostro corpo sociale.
Ne siamo usciti confermando la nostra umanità, che è imperfetta e sa di esserlo, ma non si rassegna alla sua imperfezione, comodo rifugio di pavidi, inetti e opportunisti.
Ne siamo usciti resistendo a queste tentazioni.
Ne siamo usciti facendo il nostro, ciascuno il suo, anche piccolo, e confermando la fedeltà a questo dovere.
Ne siamo usciti cercando di non smarrire la direzione di questa Storia comune.

Doveri, lavoro, solidarietà. Fiducia reciproca e pazienza che si richiede nell’incedere lungo il percorso che lega le generazioni, passato e futuro, nel cui di mezzo ci siamo noi. Imperfetti, ma capaci di bene dire e fare. Di inventare, scoprire cercando e sortendo insieme un futuro comune.
Con intelligenza, passione, dedizione.

Questa è Resistenza, che libera. Che ci rende liberi e migliori. E di Resistenti ne ho visti e sentiti tanti in questo periodo.
Ai Resistenti, di ieri e di oggi, grazie!

Buona Resistenza!
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La giornata è iniziata così. Con il ritorno a casa, dopo le cure in ospedale, di una signora, nostra concittadina, colpita e guarita dal virus. Una famiglia che si è ritrovata dopo settimane difficili. Per me, è iniziata con l’emozione di un video e soprattutto di un messaggio che mi ha inviato uno dei figli. Le parole fanno da medicina all’animo dolente, scriveva un drammaturgo greco. Oltre alle parole, alla nostra portata – ricordava qualche tempo fa uno scrittore italiano a me caro – esistono gesti di simpatia e premura che rinnovano il patto di ognuno col resto della specie umana.