URBANISTICA: TEMA MALEDETTO?
È necessario avviare una nuova stagione
Chiunque segua le vicende amministrative e politiche che si consumano a livello locale, ha imparato che sulla materia dell’urbanistica si consumano riti, furori, processioni e lacerazioni di vario genere; nascono e muoiono alleanze di governo.
Il più delle volte gruppi economici ed imprenditoriali scandiscono i tempi della politica amministrativa, aggregando o disaggregando con la più ampia variabilità geometrica e politica. Questo, da sempre. Negli ultimi anni, il fenomeno ha assunto tratti di spudorato nitore. Mi spiego. Al meccanismo della rappresentanza indiretta di interessi particolaristici la cui sintesi (accordi, compromessi, spartizioni) era affidata al sistema dei partiti tradizionali si è sostituito da qualche anno, con la perdita di punti di riferimento stabili e certi, quello della rappresentazione fisica, plasticamente percepibile e diretta di tali interessi. Tali gruppi si organizzano e si mobilitano già in occasione delle campagne elettorali, con lo stesso piglio di una scalata societaria: individuano i candidati da sostenere, investono risorse finanziarie, creano alleanze, candidano propri uomini, il tutto per determinare rapporti di forza, in seno ad un consiglio comunale o ad una maggioranza, i più favorevoli alla difesa di quel grumo di interessi. Nella migliore delle ipotesi, propri uomini determineranno scelte amministrative; nella peggiore, propri uomini saranno una forza in grado quantomeno di minare o interdire scelte altrui non gradite ai rispettivi gruppi di riferimento.
Basta scorrere la cronaca amministrativa di molti comuni, per rendersi conto di come su questioni urbanistiche siano nate e morte alleanze di governo. Ne sono certo, in quanto testimone diretto (allibito, ma non rassegnato), per quanto riguarda il nostro Comune di cui sono consigliere da qualche anno. Da mesi, ad esempio, anche con l’attuale maggioranza di centrodestra, i lavori del consiglio comunale e l’attività amministrativa sono paralizzati da un paio di lottizzazioni.
Quasi sempre, all’ambiziosità e nobiltà dei fini dichiarati (umanizzazione e rivitalizzazione delle periferie urbane, miglioramento della qualità della vita dei cittadini con servizi e strutture pubbliche, recupero di centri storici straordinari, ecc.) certa classe politica ha la presunzione di piegare la modestia ed inadeguatezza dei mezzi (risorse finanziarie pubbliche scarse, piani regolatori stravolti dai fatti, incertezza culturale e corrività di certi apparati politici e burocratici, difesa pedissequa di un ruolo pubblico regolatore accompagnata spesso da disattenzione nella quotidiana violazione delle destinazioni d’uso, ecc.).
Che fare, dunque? È necessario partire da alcuni punti fermi, ben noti da diversi lustri.
1) La materia della pianificazione urbanistica ha subito una radicale evoluzione grazie alle leggi che numerose regioni, nell’ultimo decennio, hanno adottato. A dire il vero, quella pugliese (n. 20 del 2001) appare la meno incisiva ed audace, sicuramente la più laconica. In tutte, comunque, risulta ben chiara la distinzione tra la fissità e rigorosità delle linee strutturali e strategiche di sviluppo territoriale (la cui definizione è riservata all’ente pubblico) e la duttilità e flessibilità degli strumenti urbanistici operativi o attuativi (in cui un ruolo propositivo è riservato anche ai privati).
2) Il PPA (piano pluriennale di attuazione) appare uno strumento del tutto superato, nobile quanto si vuole, ma vecchio ed inadeguato. Non va sottaciuta, poi, l’ipocrisia di certe sue evocazioni nostalgiche. Questo tipo di piani, com’è noto, prevede un programma di interventi edilizi accompagnato da un programma di investimenti destinati alle opere di urbanizzazione (strade, impianti, asili e scuole, parcheggi, parchi e strutture sportive, ecc.) del territorio interessato. Quasi sempre, però, la realtà ha travolto le seppur ottime intenzioni, stravolgendo, diacronicamente, lo schema: prima si sono fatti i palazzi e dopo ”“ ma solo raramente, quando si sono reperite o salvate risorse dai dissesti finanziari dei comuni (si pensi alla perversa e diffusa “politica”? di bilancio che dirotta sulla spesa corrente buona parte delle somme introitate a titolo oneri concessori) e quando si sono superate le incertezze delle procedure di affidamento e realizzazione delle opere pubbliche ”“ si è pensato alle opere di urbanizzazione. Da qui la creazione di dormitori, non case e civili abitazioni.
3) Nella leggi regionali dell’ultima generazione, viene valorizzato uno strumento di intervento come il comparto urbanistico, in cui ”“ attraverso consorzi, società di trasformazione urbana, piani integrati, piani di riqualificazione o di recupero ”“ i Comuni (o i privati o entrambi) si preoccupano di garantire che gli interventi di edificazione siano organicamente accompagnati dalla realizzazione di strutture e servizi di interesse collettivo.
4) Si promuove la perequazione edilizia (semplicemente enunciata, però, nella legge pugliese), meccanismo destinato a superare la ben nota ingiustizia determinata dal “tratto di penna”? dei redattori dei piani regolatori: lo sperequato trattamento riservato ai proprietari delle aree destinate al soddisfacimento degli standards urbanistici rispetto ai proprietari delle aree a cui invece viene riconosciuta una capacità edificatoria. La tecnica perequativa si traduce nell’eguale distribuzione degli oneri e dei vantaggi legati all’urbanizzazione tra tutti i proprietari delle aree ricomprese nella maglia o comparto di intervento. Il che implica rendere indifferenti i proprietari rispetto alle scelte pianificatorie relative all’individuazione delle aree su cui insediare opere o servizi destinati alla collettività , superando in tal modo il potere interdittivo che i proprietari “gravati”? esercitano rispetto all’iniziativa pubblica.
5) L’ultimo spunto è offerto da quanto in più occasioni Corte costituzionale, Consiglio di Stato e Legislatore statale hanno indicato: il ricorso a forme compensative ”˜alternative’ al mero indennizzo nelle procedure espropriative o acquisitive di diritti di titolarità privata. Quale vantaggio economico “alternativo al denaro”? può offrire un’amministrazione comunale a fronte della cessione di aree destinate a standards o della rinuncia (negoziale o forzata) a diritti edificatori di aree ricomprese in una zona urbanisticamente già congestionata, se non l’attribuzione di diritti edificatori in altre aree già individuate o da individuarsi? Che si voglia parlare di “crediti edificatori”?, di “trasferimento di cubatura”? o di altro ancora, la sostanza non cambia ed è nota a tutti: non solo ai privati, che già conoscono operazioni negoziali in cui dispongono di un bene come la cubatura (cessione di cubatura, asservimenti); ma anche a numerose amministrazioni comunali che hanno già sperimentato ed adottato, superando anche il vaglio di organi giudicanti, accordi con privati o strumenti pianificatori che contemplano il trasferimento di diritti edificatori (nell’esperienza nordamericana, i Transfer Development Rights). Per tutte, mi limito a citare la variante al piano regolatore adottata nel 1995 dal Comune di Reggio Emilia o la variante generale al piano regolatore di Roma adottata dall’Amministrazione Rutelli, il c.d. Piano delle certezze. Quest’ultimo, ad esempio, all’ambito extraurbano, comprendente il 64% del territorio comunale, ha impresso destinazioni ecologico-ambientali (agricola, verde pubblico, parco privato) in luogo delle precedenti destinazioni orientate allo sviluppo edilizio. A fronte di tali mutamenti nella destinazione urbanistica, la variante ha individuato un meccanismo di compensazione con cui si prevede che ai singoli proprietari verranno restituiti i diritti edificatori soppressi una volta rilocalizzate le cubature su aree ubicate altrove. Queste saranno reperite ed individuate dal Comune nel diverso ambito territoriale della c.d. “città da completare e trasformare”? (di estensione pari al 31% del territorio) che prevede ampie zone edificabili e su cui il comune intende agire con “i nuovi strumenti dell’intervento concertato pubblico-privato”?, quali i programmi di riqualificazione urbana e quelli di recupero urbano.
Tali (inevitabilmente sommari) richiami, per dire cosa?
È necessario mettere mano ad una riforma della legge urbanistica regionale, in modo da combinare più efficacemente i punti richiamati. Anche considerando l’attuale quadro normativo, però, nulla impedisce di porre in essere politiche urbanistiche orientate modernamente verso obiettivi, spesso solo enunciati e non concretamente perseguiti. Ad esempio, non è più possibile considerare i vantaggi o diritti edificatori come attribuzione esclusiva dei proprietari delle aree “gratificate”? dal connotato dell’edificabilità . Sinora, l’attività pianificatoria si è ridotta a registrare o ad attribuire una capacità edificatoria, una sorta di cadeau, senza ritorno alcuno, riconosciuto dall’amministratore pubblico ad alcuni proprietari. Nulla, in termini di diritto positivo, impedisce invece di spalmare, con il meccanismo perequativo, la volumetria potenzialmente insediabile in una maglia territoriale tra tutti i proprietari e, soprattutto, nulla impedisce che l’amministrazione pubblica riservi a sé una quota della volumetria complessiva insediabile, da utilizzare come moneta di scambio per la realizzazione di opere di urbanizzazioni o per la compensazione di diritti edificatori soppressi nelle aree a cui si voglia riconoscere una vocazione ambientale, ecologica o di interesse collettivo in luogo di una precedente di natura edilizia.
Se è possibile contare sulle sapienti mani dell’assessore regionale al ramo, la professoressa Barbanente, non altrettanto si può dire di una folta schiera di amministratori locali. Chiunque abbia vissuto direttamente un’esperienza amministrativa, sa bene che spesso il richiamo a “sacri principi”? costituisce un comodo alibi o per non sforzarsi di comprendere la natura dei problemi, che sono reali e drammaticamente vissuti dai cittadini (si pensi all’assenza di qualsivoglia servizio, struttura o infrastruttura pubblica nelle nuove zone residenziali: Lama di Cervo, Via Selva, Via Bari, Via Carpentino), e di trovarne soluzioni, oppure per assicurarsi un margine di trattativa da condurre in altri sedi e con altri argomenti (è ancora vivo il ricordo della fine ingloriosa che fu riservata dalla precedente maggioranza consiliare, nell’aprile 2004, al piano di riqualificazione denominato Contratto di Quartiere II immaginato per la zona tra via Selva e via Gravina, per il quale v’erano cospicui fondi regionali a disposizione). Ha imparato pure a replicare alla “concreta”? obiezione che “la politica è l’arte del possibile”?. È vero: è l’arte del possibile, ma anche l’arte di “crearlo questo possibile”?, non di consumarne, giorno dopo giorno e sempre più, opportunità ed occasioni.
Anche su questo versante, le forze politiche al governo di regione e comuni sono chiamate a declinare, con semplicità e chiarezza, le parole riformismo e progresso.
ENZO COLONNA
Ricercatore di diritto privato ”“ Università degli Studi di Foggia
Consigliere comunale di Altamura ”“ Movimento Cittadino Aria Fresca
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