rottura di maroni

All’inizio ero seduto in camera di mia sorella e guardavo Barbie, che viveva con Ken posata su un centrino sopra il ripiano del comò.
La stavo guardando e a un tratto mi accorsi che mi stava fissando.
Era seduta accanto a Ken, che strusciava distrattamente la coscia, coperta dal pantalone beige, contro la gamba nuda di lei. lui si stava strusciando, ma lei guardava me.
“Ciao”, disse.
“Ciao”, dissi io.
“Mi chiamo Barbie”, disse lei, e Ken smise di strusciarsi contro la sua gamba.
“Lo so”.
“Tu sei il fratello di Jenny”.
Annuii. La testa mi faceva su e giù come quella di un pupazzo con dentro un contrappeso.
“Mi sta tanto simpatica tua sorella. È dolcissima”, disse Barbie. “Un amore di bambina. Specie negli ultimi tempi, si mette sempre tutta carina, e ha cominciato anche a farsi le unghie”. (”¦)
“Senti”, dissi. “Ti andrebbe di uscire un po’? Prendiamo una boccata d’aria fresca, magari ci facciamo due passi in giardino”.
“Volentieri”, disse lei.
La presi per i piedi. Suona strano ma ero troppo impietrito per prenderla per la vita. La afferrai per le caviglie e me la portai via come un lecca lecca. (”¦)
“Allora, che tipo di Barbie sei?”, chiesi.
“Come, scusa?”
“Be’, a forza di sentire Jennifer so che esistono Barbie Giorno e Notte, Barbie Movimenti Magici, Barbie Regalo, Barbie Tropical, La Mia Prima Barbie e altre ancora”.
“Io sono Tropical”, disse, con lo stesso tono con cui uno potrebbe dire “sono cattolico” o “sono ebreo”. (”¦)
Restammo lì seduti a guardarci, guardandoci e parlando e poi smettendo di parlare e guardandoci ancora. Era una serie di false partenze, ciascuno di noi diceva costantemente la cosa sbagliata, diceva una cosa qualunque, e subito si pentiva di averla detta.
Era evidente che Barbie non si fidava di me. Le chiesi se voleva qualcosa da bere.
“Una Diet Coke”, disse. E mi domandai perché l’avevo chiesto.
Entrai in casa, salii nel bagno dei miei, aprii l’armadietto delle medicine e presi un valium. Ne buttai subito giù uno. Pensai che se fossi riuscito a restare calmo e padrone di me stesso avrebbe capito che non intendevo farle del male. Ruppi un altro valium in un milione di pezzettini, ne versai qualche briciola nella Diet Coke di Barbie e la agitai per miscelare il tutto. Pensai che se fossimo riusciti a restare tutti e due calmi e padroni di noi stessi, ci avrebbe messo ancora meno a fidarsi di me. Mi stavo innamorando in una maniera che non aveva niente a che vedere con l’amore.
“Allora, cosa c’è fra te e Ken?”, le chiesi più tardi, dopo che ci eravamo sciolti un po’, dopo che lei aveva bevuto due Diet Coke e io avevo fatto un altro viaggio fino all’armadietto dei medicinali.
Fece una risatina. “Niente, siamo solo buoni amici”.
“No, dai, davvero, a me puoi dirlo. Come stanno le cose? Voglio dire, siete o non siete una coppia?”
“Sciete o non sciete una coppia?”, disse Barbie lentamente, farfugliando; sembrava tanto drogata che se fosse esistita una prova del palloncino per il valium lei lo avrebbe fuso di sicuro.
Mi pentii di averle preparato una terza Coca. Insomma, se fosse morta di overdose di sicuro Jennifer l’avrebbe detto a mamma e papà .
“Cos’è, frocio?”
Barbie rise e io quasi le diedi uno schiaffo. Lei mi guardò dritto negli occhi.
“Ma no, mi desidera eccome”, disse. “Torno a casa la sera e lui è lì in piedi che mi aspetta. Non porta le mutande, sai. Cioè, non ti pare strano? Ken non possiede biancheria intima. Ho sentito Jennifer dire alle sue amiche che per Ken non la fanno proprio. Comunque, dicevo, lui sta sempre lì ad aspettarmi e io gli faccio: Ken, siamo amici e basta, ok? Cioè, non so se l’hai notato, ma ha i capelli che sono un blocco unico di plastica. La testa e i capelli sono un pezzo solo. Non posso uscire con uno così. Oltretutto, non credo che sarebbe all’altezza, se capisci cosa intendo. Ken non è uno che definiresti ben dotato”¦Non ha altro che un bozzetto di plastica, cioè, in realtà  è più una gobbetta, e una che cazzo ci deve fare con un coso del genere?” (”¦)
Mentre tornavamo nella stanza di Jennifer feci qualcosa che Barbie quasi non mi perdonò.
Feci qualcosa che non solo spezzò l’incanto del momento, ma per poco non distrusse ogni possibilità  di avere un futuro insieme.
Nel corridoio fra le scale e la stanza di Jennifer mi ficcai la testa di Barbie in bocca, come un leone con un domatore, Dio con Godzilla.
Mi ficcai tutta la testa in bocca, e i capelli di Barbie si separarono in tanti fili come quelli argentati dell’albero di Natale, mi si impigliarono in bocca e quasi mi soffocarono. Sentii il sapore di una serie di strati di trucco, Revlon, Max Factor e Maybelline. Chiusi la bocca intorno a Barbie e sentii il suo respiro dentro il mio. Sentii le sue grida dentro la mia gola. Coi denti, bianchissimi ”“ Pearl Drops, Mentadent e tutta la famiglia Boccasana -, mi morse la lingua e l’interno della guancia, come certe volte mi capita di fare da solo per sbaglio. Chiusi la bocca intorno al suo collo e la tenni lì sospesa, coi piedi che scalciavano invano nell’aria davanti alla mia faccia.
Prima di tirarla fuori le premetti leggermente i denti contro il collo, lasciandole segni che Barbie descrisse come cicatrici dell’aggressione, ma che io immaginai come una collana new age, un pegno del mio amore.
“In vita mia non sono mai, mai stata trattata con una tale mancanza di rispetto”, disse appena la lasciai uscire.
Non era vero. Sapevo che a volte Jennifer faceva cose strane a Barbie. Non dissi che una volta l’avevo vista penzolare dalle pale del ventilatore sul soffitto della camera di Jennifer, girando in ampi cerchi come un’imitazione di Superman.
“Mi dispiace di averti spaventata”.
“Spaventata!”, squittì.
(”¦)
“Spaventata! Spaventata! Spaventata!”, squittì Barbie sempre più forte, fino a che non ebbe di nuovo la mia attenzione. “Sei mai stato tenuto prigioniero nella caverna buia del corpo di un’altra persona?”
Scossi la testa. Sembrava una prospettiva meravigliosa.
“Tipico”, disse. “È incredibile quanto è tipico dei maschi”.
Per un momento mi sentii orgoglioso.
“Perché dovete sempre fare le cose che sapete che non dovreste fare? E il bello è che quando le fate vi brillano gli occhi, come se vi dessero uno strano piacere che solo un ragazzo potrebbe capire. Siete tutti uguali”, disse. “Tanti piccoli Jack Nicholson”.
(”¦)
Sentii i passi pesanti di Jennifer sulle scale. Il tempo a mia disposizione era agli sgoccioli.
“Sai, ci tengo sul serio a te”, dissi a Barbie.
“Anch’io”, disse lei, e per un attimo non fui sicuro se intendeva che teneva a me o a lei stessa.
“Dovremmo vederci ancora”, dissi io. Lei annuì.
Mi chinai per baciare Barbie. Me la sarei potuta portare alle labbra, ma per qualche ragione non mi sembrava la cosa giusta da fare. Mi chinai per baciarla e per prima cosa mi ritrovai il suo naso in bocca. Mi sentii come un San Bernardo che faceva le feste.
(”¦)
“Mi sono divertita”, disse Barbie. Sentii Jennifer in corridoio.
“Ci vediamo”, dissi.
(”¦)
Il venerdì successivo presi un valium una ventina di minuti prima di passare a prenderla. Quando entrai nella stanza di Jennifer, stava già  diventando più facile.
“Ehi”, dissi quando arrivai davanti al comò.
Era lì sul centrino insieme a Ken: stavano appoggiati uno contro la schiena dell’altra, seduti con le gambe tese.
Ken non mi guardò. Poco importava.
“Sei pronta?”, chiesi. Barbie annuì. “Ho pensato che magari avevi sete”. Le porsi la Diet Coke che le avevo preparato.
Secondo i miei calcoli Barbie poteva prendere un po’ meno di un ottavo di valium prima di rincoglionirsi del tutto. Fondamentalmente dovevo darle briciole di pasticca, perché non c’era modo di tagliarne una in parti così piccole.
Prese la Coca e la bevve proprio lì davanti a Ken. (”¦) Ken si comportava come se non si fosse neppure accorto della mia presenza. Lo odiavo.
“Non posso camminare molto oggi pomeriggio”, disse Barbie.
Annuii. Non era certo un gran problema, dato che per la maggior parte del tempo mi pareva che fossi io a portarla.
“I piedi mi fanno un male boia”, disse.
Stavo pensando a Ken.
“Non hai un altro paio di scarpe?”
(”¦)
“Non sono le scarpe”, disse lei. “Sono le dita”.
“Ti ci è caduto qualcosa?” Il valium non mi stava facendo effetto. Avevo difficoltà  a scambiare quattro chiacchiere. Me ne serviva un altro.
“Jennifer me le ha mordicchiate tutte”.
“Che?”
“Jennifer mi morde le dita dei piedi”.
“Ti fai mordere i piedini da Jennifer?”
(”¦)
“E ti piace?”, chiesi.
“Mi ci affonda letteralmente i denti dentro, come se fossi una rosa di vitello o qualcosa del genere”, dice Barbie. “Vorrei che me li staccasse una volta per tutte e la facesse finita. Ci sta mettendo un’eternità . Mastica, mastica, praticamente mi rosicchia”.
“La farò smettere io. Le comprerò delle gomme, un po’ di tabacco, qualcosa, una matita da mordicchiare”.
(”¦)
Mi sedetti sul bordo del letto di mia sorella con la testa fra le mani. Mia sorella le stava strappando i piedi a morsi e Barbie sembrava non farci caso. Non gliene faceva una colpa, e in un certo senso questo mi piaceva. Mi piaceva il fatto che capisse che tutti abbiamo piccole abitudini segrete che a noi sembrano abbastanza normali ma di cui sappiamo che non è il caso di parlare ad alta voce. Cominciai a immaginare le cose che mi sarei potuto far perdonare io.
(”¦)
La presi in mano. Ken cadde con la schiena all’indietro e Barbie volle che lo raddrizzassi prima di andarcene. “Solo perché sai che ha soltanto un bozzetto non sei autorizzato a trattarlo male”, bisbigliò.
Rimisi a posto Ken e portai Barbie per tutto il corridoio fino in camera mia.
(”¦)
Eravamo sdraiati sul mio letto, accoccolati una dentro l’altro. Barbie era su un cuscino accanto a me e io ero su un fianco, davanti a lei. Stava parlando di uomini, e mentre parlava io cercavo di essere tutto quello che diceva. Diceva che non le piacevano gli uomini che avevano paura di se stessi. Io cercai di fare il coraggioso, di assumere un’aria spavalda e sicura. Misi la testa in una certa posizione e sembrò che funzionasse. Disse che non le piacevano gli uomini che avevano paura della femminilità , e questo mi confuse.
“I ragazzi vogliono sempre dimostrare quanto sono maschi”, disse Barbie.
(”¦)
“Tu prendi in giro Ken perché accetta di essere quello che è. Lui non nasconde niente”.
“Non ha niente da nascondere”, dissi. “Ha i capelli che sono un blocco unico di plastica, e un bozzetto al posto del cazzo”.
“Non avrei mai dovuto dirti del bozzetto”.
Mi stesi supino sul letto. Barbie rotolò via dal cuscino e mi si posò sul petto. Il suo corpo mi arrivava dal capezzolo all’ombelico. Premeva le mani contro di me, facendomi il solletico.
“Barbie”, dissi.
“Umm humm”.
“Cosa provi per me?”
Rimase in silenzio per un attimo. “Non ti preoccupare”, disse, e mi infilò una mano dentro la camicia attraverso lo spazio fra i bottoni.
Le sue dita erano come punte di stuzzicadenti impegnate in un’antica e sottile tortura, una danza di morte del maschio che mi percorreva tutto il petto. Barbie mi strisciava addosso come un insetto colpito da una spruzzata di Raid di troppo.
Sotto i vestiti, sotto la pelle, stavo impazzendo. Tanto per cominciare, ero stato rapito dalle mie mutande e non c’era modo di tentare aggiustamenti manuali senza attirare gratuitamente l’attenzione.
Con Barbie impigliata nella mia camicia rotolai lentamente su me stesso, come in una manovra di attracco dello Shuttle. Mi misi a pancia sotto, intrappolandola sotto di me. Nella maniera più lenta e discreta possibile cominciai a strofinarmi contro il letto, all’inizio nella speranza di sistemare le cose e poi continuando, continuando, in preda a una sorta di piacere-dolore.
“È un materasso ad acqua?”, chiese Barbie.
Le tenevo una mano sul seno, solo che non era davvero una mano, più che altro il mio dito indice. Toccai Barbie e lei ansimò leggermente, uno squittio a rovescio. Squittì all’incontrario e poi si fermò, e io rimasi lì bloccato con la mano su di lei, pensando a come attraversavo di continuo il confine fra gli abbienti e i non abbienti, fra i buoni e i cattivi, fra l’uomo e l’animale, e non c’era assolutamente niente che potessi fare per fermarmi.
Barbie era piazzata sul mio inguine, con le gambe rivoltate all’indietro in una posizione che non era umana.
A un certo punto dovetti liberarmi. Se avevo il cazzo gonfio, era solo perché stava soffocando. Feci gli onori di casa e lui schizzò fuori come un evaso da un carcere di massima sicurezza.
“Non ho mai visto una cosa così grossa”, disse Barbie. Era la frase dei miei sogni, ma data la gente che frequentava Barbie di solito, vale a dire il ragazzo col bozzetto, non c’era molto da stupirsi.
Era in piedi alla base del mio cazzo, coi piedi nudi affondati nei miei peli pubici. Ce l’avevo lungo quasi quanto lei. Ok, non così tanto, ma mi difendevo bene. Lei e lui avevano perfino la stessa espressione vagamente sorpresa.
(”¦)
Decisi di comprare un regalo a Barbie. Ero arrivato a quello strano punto in cui avrei fatto qualunque cosa per lei. Presi due autobus e mi feci due chilometri a piedi per arrivare da Toys R Us.
(”¦)
L’unica bambola della serie Tropical che trovai fu un Ken Tropical nero. Ma a guardarlo non avresti detto che era nero. Voglio dire, non era nero come un negro vero. Ken Tropical aveva il colore dell’uva passa, uva passa tutta stesa e senza grinze. Aveva una corta pettinatura afro che sembrava una parrucca che gli avessero fatto piovere in testa e fissato lì, un elmetto protettivo. Mi chiesi se il Ken nero non fosse altro che un Ken bianco coperto di un denso strato di plastica scura, come uvetta stirata col ferro da stiro.
Disposi otto Ken neri in fila su uno scaffale. Dalla finestra di plastica della confezione Ken mi disse che sperava di entrare alla scuola per dentisti. Tutti gli otto Ken neri cominciarono a parlare nello stesso momento. Per fortuna dicevano tutti la stessa cosa contemporaneamente. Ken sorrise. Aveva gli stessi denti bianchi da Pearl Drops, Pepsodent e famiglia Boccasana che avevano Barbie e Ken bianco. Pensai che tutta la famiglia Mattel doveva tenere molto all’igiene personale. Immaginai che fossero gli unici rimasti in tutta l’America a lavarsi davvero i denti dopo ogni pasto e poi di nuovo prima di andare a dormire.
Non sapevo cosa comprare a Barbie. Ken nero mi consigliò di scegliere qualcosa di abbigliamento, magari una pelliccia. Volevo qualcosa di veramente speciale. Avevo in mente un regalo stupendo che in qualche modo ci avrebbe avvicinati.
C’erano una piscina tropicale e un set per il giardino, ma decisi che avrebbero potuto farle venire nostalgia di casa. C’era una vacanza invernale completa, casetta col tetto a punta, caminetto, gatto delle nevi e slitta. Me la immaginai che invitava Ken a passare un weekend fuori senza di me. Il set del telegiornale della sera non era male, ma per via del suo squittio non mi sembrava che Barbie potesse avere un gran futuro come giornalista televisiva. Una palestra, un divano letto con tavolino, una piscina termale con le bollicine, una camera da letto. Scelsi il pianoforte a coda. Costava tredici dollari. Mi ero sempre imposto di non spendere mai più di dieci dollari per nessuno. Stavolta mi dissi chi se ne frega, un pianoforte a coda non si compra tutti i giorni…
“Me lo incarti, per favore”, dissi alla cassiera.

la butto lì, molto a latere. quando mi capita, se mi capita di venire qui, provo sempre un senso di estraniamento, una comunicazione mancata. sono stanco di leggere di queste pochezze, di questa numerologia, st’elenco di nati e morti, codici cifrati, frasi tendenziose, minacce, burle frittomisto. ha fatto questo ha fatto quello. non ci capisco niente. non capisco proprio il senso. già  dobbiamo sorbirci la piaga di una città  culturalmente morta. forse sono io che sono scemo ma proprio non riesco a capire perkè l’unico argomento che qui fa capolino è la politica (anche una qualsiasi forma di dialogo o civile dibattito su tematiche musicali o librarie è politico, in qualche modo…) ad ogni modo questo è un racconto. una storia. un fatto. è un modo per dire c’è dell’altro, altrove. intanto ve lo posto. ovviamente per la gran parte di voi non avrà  senso, come non ha senso quello che ho postato di “moresco” un autore italiano che trovo molto interessante. leggete quello che scrive. statevi buoni, f.