di GIANNI MURA
GLI applausi in chiesa mi sa che non gli sarebbero piaciuti, lui era uno imbarazzato anche dai colori troppo vivaci, per questo aveva sempre maglioni scuri e l’espressione di uno di passaggio che non ha verità definitive da consegnare al prossimo, forse nemmeno poesia. Però chi lo ha pianto, ieri, nella lunga sfilata al Piccolo Teatro e, nel pomeriggio, all’abbazia di Chiaravalle, tutti quelli che hanno fatto sparire i suoi dischi dai negozi di Milano (e di altre città , spero), quelli con gli occhi rossi e la testa bassa lo ricordano come un poeta.
Non sarà il futuro a spiegare perché, né il disco che uscirà tra poco, ma il passato che si riflette nel rimpianto. Strano funerale, quello di Gaber, ma non dissonante. A prima vista, si può dire che molto raramente, o quasi mai, lo stesso dolore ha collegato persone tra loro così diverse, come Berlusconi e Capanna, Celentano e Della Mea, ciellini e rifondaroli, Giuseppe Pisanu e Ricky Gianco.
Bisogna essere molto furbi o molto bravi, per avere un funerale così. Gaber era molto bravo. Adesso lo dicono tutti, anche una sinistra che, più delle sue canzoni, a Gaber non ha perdonato le scelte politiche di sua moglie, e una destra che cerca di piantare le bandiere su un territorio che non le appartiene perché non è mai stato in affitto né in vendita. Per sensibilità , cultura, ironia, ma anche pudore, odio della retorica e degli slogan, Gaber non è mai stato di nessuno, rivendicando sommessamente ma fermamente il diritto di pensare con la sua testa e di dare voce solo a quello in cui si riconosceva. Più dubbi che certezze.
Ho ripensato ieri ai funerali di De André. A un punto in comune tra questi due artisti: il rifiuto della ribalta facile (l’intervista, la comparsata, la promozione) ma soprattutto il rifiuto della tivù. Al loro isolamento non passivo. Al fatto che quando le parole, le idee ci sono non è indispensabile farle passare per il solito megafono. Alla loro tranquilla e tenace anarchia. A raccontare così bene le storie degli ultimi, degli emarginati (De André) e la faticosa vita di tutti (Gaber) tra miti nascenti e crollati, mode, illusioni, perdite di identità .- Pubblicità –
Da circa trent’anni Gaber studiava gli italiani come un entomologo preoccupato, e produceva canzoni-radiografie. Si era definito anarcoide (anarchico doveva sembrargli l’equivalente di un maglione arancione) e anche cantattore. Giusto, perché la sua fisicità , nel cantare, resta unica per l’Italia e paragonabile, altrove, al solo Brel. Quando racconta di un operaio alla catena di montaggio che si carica di un tic dopo l’altro, Gaber è un mimo strepitoso.
Anche la faccia, il naso esagerato, gli occhi stretti e dolci, i capelli lunghi e spettinati, era teatrale. “Libertà è partecipazione” cantavano fuori da Chiaravalle. I cantanti, quando muoiono, spesso diventano titoli delle loro canzoni: il signor G, il padre del Cerutti, quello della Torpedo blu. Gaber è stato un cantautore atipico, se per tipico si intende chi fa tutto da sé, parole e musica. Nel primo periodo, quello detto milanese, Gaber si è appoggiato ai testi di Umberto Simonetta, da cantattore a quelli di Sandro Luporini, certamente condivisi (altrimenti non li avrebbe cantati).
Ma la Milano cantata da Gaber è morta prima di lui e di Simonetta. La Porta Romana dei baci dati in fretta sotto un portone rivive nei ricordi di Maria Monti, sui giornali: lui stava a casa sua coi suoi, io a casa mia coi miei, c’era giusto la macchina. E due giorni di vacanza a Sestri Levante. Una volta al Giambellino, pensate, il brivido del proibito era uno che rubava Lambrette. E nella grande città piena di luci, con tanta gente che lavora e che produce, rivedevi la ragazza Carla di Pagliarani, le nevrosi impiegatizie così ben descritte da Majorino. Il Riccardo ha smesso da un pezzo di giocare a biliardo.
Nessuno passa più la sera bevendo barbera, che non è più un vino popolare, può arrivare a 50 euro la boccia. E comunque il Trani è diventato un wine-bar. O un pub. Le strade di notte sembrano ancora più grandi sì, ma in molte zone non è il caso di fare quattro passi. In quella Milano Gaber si muoveva come un pesce nell’acqua, prendeva il suo bravo diploma da ragioniere, giocava benissimo a calcio balilla (stava davanti) e passava in poche settimane dall’assoluto anonimato alla prima incisione.
Perché allora bastava poco, e davvero il cielo sembrava pieno di biglietti da mille (come cantò, dopo, il suo amico Jannacci). Perché Milano era una città aperta, curiosa, viva e con tanta voglia di vivere. C’era il Derby, c’era il Santa Tecla del ballerino Dossena, che vinse a Lascia o raddoppia?, di Gaber e di tutti i rockettari della prima ondata, quasi tutti arrivati da fuori, che avrebbero seguito strade diverse ma che si scoprirono amici in quel periodo.
E il rispetto, la solidarietà di quei tempi hanno resistito ai cambiamenti, al divergere delle strade. Al Carcano (di questo sono sicuro) una sera di diciassette anni fa (di questo meno) Gaber capitò inatteso alla festa per i venticinque anni di carriera di Gianco e fu un “Be bop a lula” indimenticabile. Il ragazzo di via Londonio aveva sfrattato l’entomologo delle canzoni dense ma mai noiose, lunghe e precise, alta sartoria, monologhi musicati. Ce lo scordiamo, uno così. Ma adesso è giusto ricordarlo, ognuno come crede. Nelle facce dei milanesi che piangevano mi è parso di cogliere non solo il dolore per la morte di Gaber, bravo, simpatico, educato vicino di casa, ma anche l’angoscia per come eravamo e siamo diventati, una specie di fitta, e sempre meno voci a spiegarcelo.
(4 gennaio 2003)