Liscia, Privata, o …

Cinque anni fa la città  di Adelaide, in Australia, rischiò di restare soffocata dagli odori nauseabondi che esalavano dai tombini. L’azienda che si era impegnata a depurare le acque aveva perso il controllo della rete fognante e per tre mesi nella zona aleggiarono aromi pestilenziali. Circa un anno dopo, nella stessa città  si diffuse l’allarme di una contaminazione dell’acquedotto. «Bollite l’acqua prima di berla», fu la raccomandazione del sindaco, e fu il boom delle acque minerali. La gente era esasperata, l’inchiesta delle autorità  fu inevitabile. Le indagini produssero un verdetto inequivocabile: «I disagi provocati alla popolazione sono dovuti a una politica di sistematica riduzione dei costi di gestione dei servizi» da parte delle aziende appaltatrici. Vale a dire l’asportazione chirurgica di quei settori che hanno il compito di monitorare la qualità  delle acque e prevenire il collasso della rete idrica.

A Buenos Aires invece la rete funziona alla perfezione, ma in alcuni quartieri a Sud della capitale argentina l’acqua non arriva più. L’azienda appaltatrice ha deciso di lasciare a secco cinque milioni di persone, fino a quando non pagheranno le bollette. Poco importa che in Argentina, come sanno tutti, le banche hanno fatto sparire i soldi e nessuno ha in tasca i soldi per pagare. L’azienda non è tenuta a fornire servizi gratis. Fine del discorso.

Sarebbe troppo facile liquidare con questi due episodi la questione della privatizzazione dei servizi legati all’acqua. A Buenos Aires e ad Adelaide sono emersi due degli aspetti più controversi del fenomeno. Uno: privatizzare significa affidarsi ad aziende che, per abbattere i costi di gestione, tendono a risparmiare sui controlli e sulla sicurezza. Due: con la privatizzazione l’acqua diventa una merce e non è più un diritto. I diritti sono gratis, le merci si pagano.

Ciò che si privatizza, ad essere precisi, non è proprio l’acqua, ma il servizio di fornitura, o quello di gestione degli scarichi, o di depurazione, o tutti questi servizi insieme. Un’azienda privata firma quindi un contratto con lo Stato e si impegna e svolgere una serie di compiti al posto suo. Le risorse idriche, invece, restano sotto il controllo diretto dello Stato.

L’idea non è affatto nuova, specialmente in Europa. Sono europee le aziende leader del settore a livello mondiale. Come la Vivendi Water, o Générale des Eaux, che fa parte del colosso francese Vivendi, attrezzata anche per progettare e fabbricare sistemi di trattamento dell’acqua. In tutto il mondo ben 110 milioni di persone pagano la bolletta dell’acqua a Vivendi, mentre altre decine di milioni la pagano a un’altra azienda francese, Ondeo, erede della Suez-Lyonnaise des Eaux. Si affacciano timidamente sul mercato anche le aziende italiane, come l’Acea di Roma, che discende dalla società  pubblica che da decenni fornisce agli abitanti della capitale l’acqua, il gas e la corrente elettrica, e l’Acquedotto Pugliese (Aqp), che da azienda di stato è diventato società  privata lo scorso febbraio, con l’incarico per gli attuali proprietari, la Regione Puglia e la Regione Basilicata, di venderlo entro l’autunno. Sul modello delle grandi aziende francesi, l’Acea e l’Aqp cercheranno di espandere il loro campo di azione, tentando di piazzarsi ovunque ci sia una gara di appalto da vincere. L’Aqp è il primo acquedotto in Europa e il terzo nel mondo, sei milioni di utenti, 309 milioni di metri cubi d’acqua e vale, secondo la stima dei periti, 774 milioni di euro. Mentre ancora si cercano capitali per la privatizzazione, l’azienda ha messo gli occhi sugli appalti algerini, giordani e libici. Riusciranno aziende cresciute come statali a reggere il confronto con i “market leader”, aziende che dominano il settore a livello mondiale da anni? C’è chi ne dubita, almeno nell’immediato, e non sempre per colpa loro. «Oggi -spiega Cesare Greco, direttore dell’Irsi, l’Associazione di imprese realizzatrici di schemi idrici- gli italiani non vanno a gareggiare in Francia perché non ne hanno la capacita, ma anche se ne avessero non riuscirebbero a vincere le gare perché le due principali aziende francesi hanno ottenuto un sistema protettivo che funziona egregiamente per i loro interessi. Così come in Italia va rotta la protezione che oggi c’è nei confronti del monopolio delle aziende pubbliche, in Francia va rotto il monopolio delle grandi multinazionali di origine francese che operano in tutto il mondo».

Questo è lo stato delle cose nel momento in cui in Italia la Finanziaria 2002 ha inaugurato la gestione delle reti idriche, lasciando agli enti locali il tempo di attrezzarsi per bandire le gare d’appalto. I privati prenderanno in mano le reti delle nostre città  e delle nostre regioni, secondo le leggi nazionali ed europee, che distinguono chiaramente le loro competenze dai doveri di supervisione che spettano all’amministrazione pubblica. «La normativa europea -illustra Greco- dispone che nella prestazione dei servizi idrici, al settore pubblico compete l’organizzazione e il controllo dei livelli del servizio, compresa la fissazione delle tariffe. Il privato quindi concorre nei limiti tariffari fissati dal pubblico, che deve poi verificare l’osservanza del contratto di fornitura». L’Italia, dal punto di vista dei privati, è parecchio indietro. «I cinquant’anni di gestione pubblica hanno impedito per legge alle aziende di rientrare nelle spese. Fino al 1974 era addirittura vietato superare con le tariffe la copertura dell’ottanta per cento dei costi. Almeno il venti per cento doveva andare ai cittadini sotto forma di imposizione fiscale …». Poi c’è stata l’introduzione delle tariffe modulate secondo i consumi: a Roma chi consuma pochi litri al giorno paga pochi centesimi al metro cubo, chi invece supera una certa soglia paga fino a due euro e mezzo, oltre agli oneri di depurazione. Una fase di passaggio verso una progressiva individualizzazione del rapporto tra i cittadini e l’acqua: all’inizio c’erano tariffe uguali per tutti, gli sprechi di qualcuno erano compensati dal risparmio di altri, con un forte intervento pubblico per colmare le disparità ; poi il passaggio a un rapporto diretto tra chi fornisce l’acqua e chi la consuma, sotto l’occhio vigile dello Stato, che controlla le tariffe e la qualità  del servizio.

Si inserisce proprio qui la polemica del cartello di associazioni che si oppone alla privatizzazione delle reti idriche, che al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre ha fatto il punto della situazione a livello planetario. Come riferisce Riccardo Petrella, autore di diversi saggi sul concetto di “bene comune” e promotore del Manifesto per l’Acqua, «l’esperienza pluridecennale della Francia e dell’Inghilterra dimostra che una volta che il politico ha ceduto la gestione delle infrastrutture e dei servizi, il settore perde pian piano le conoscenze economiche e perde la capacità  di controllare i costi di produzione. Gli enti locali perdono quindi la stessa possibilità  di negoziare i prezzi, perché non sono più capaci di determinare quanto costano i servizi».

Dev’essere per questa ragione che gli ecologisti francesi hanno lanciato una campagna dal titolo “L’eau n’est pas une marchandise”, l’acqua non è una merce, per chiedere l’istituzione di un Alto Consiglio dell’Acqua, un’authority indipendente che possa confrontarsi alla pari con le appaltatrici, piccole, grandi e anche con gli oligopoli mondiali dell’acqua. All’Alto Consiglio, secondo il progetto di legge presentato dall’ex ministro della gestione del Territorio Dominique Voynet e portato avanti dal suo successore Yives Cochet, dovrebbe essere possibile modificare i contratti di concessione che violano i diritti dei consumatori e contestare tempestivamente le infrazioni delle aziende appaltatrici. Ci sono in Francia dei comuni dove le aziende hanno preteso un balzello di 230 euro per utenza prima di cominciare l’erogazione, e secondo Petrella l’effetto di miglioramento dei prezzi non si è visto: «In Francia, delle venti città  dove i prezzi sono più elevati, diciotto sono servite dai privati e nelle venti città  con i prezzi più convenienti, diciotto gestiscono l’acqua in autonomia diretta…».

E la qualità ? Un’altra prerogativa della privatizzazione italiana è che gli enti pubblici fungeranno da tramite tra i privati e le Autorità  di bacino. Vuol dire che il gestore privato non potrà  scegliere dove procurarsi l’acqua, ma dovrà  adeguarsi alle indicazioni del settore pubblico. In più, dovrà  garantire una fornitura di non meno di 150 litri di acqua al giorno per abitante, disponibili durante tutto l’arco della giornata, quindi senza turnazioni, assumendosi la responsabilità  della rete fognaria e di depurare tutto prima di riversare nelle falde, nei fiumi e nei mari. Un bel lavoro davvero, dal momento che le grandi città  italiane sono assolutamente indietro da questo punto di vista. Se Milano ha rimandato per vent’anni qualsiasi decisione sulla depurazione delle sue acque, contribuendo a fare del Lambro il fiume più inquinato d’Italia, i depuratori di Roma sono così inadatti al compito da avere reso non balneabili le acque del Tirreno vicine alla foce del Tevere.

La cattiva gestione pubblica può essere migliorata? Secondo Greco, no. «Io debbo dire, con la mia esperienza, che il privato lavora meglio, rende di più. La legge Galli [che tutela gli utenti secondo gli stessi standard poi adottati dall’Ue] in Italia è applicata solo verso 8 milioni di italiani. Non c’è dubbio che la privatizzazione dei servizi porti maggiore efficienza e maggiore spirito nell’organizzazione del lavoro». Una delle argomentazioni decisive a favore dell’intervento pubblico è che solo lo stato può spendere per portare dappertutto l’acqua, così come il gas, la posta e altri servizi pubblici. I privati che gestiranno le nostre reti idriche sono disposti a portare l’acqua anche in villaggi sperduti? La legge Galli ha previsto in questo senso un sistema di ambiti territoriali ritagliati dalle regioni, nel quale per esempio la Lombardia sarebbe divisa in dodici ambiti, mentre alle regioni più piccole come il Molise e la Valle d’Aosta ne spetterebbe uno. Ogni ambito territoriale avrebbe una tariffa comune a tutti gli abitanti, in modo che il risparmio di un ambito compensi i costi dell’altro (che comprendono la fornitura dell’acqua così come la depurazione). Ma chi garantisce la qualità  dei servizi? «Nelle autorità  d’ambito saranno presenti le organizzazioni dei consumatori e quelle ambientaliste, che faranno sentire la loro voce si uniranno ai sindaci nel controllo della qualità  del servizio». Secondo Greco la gestione pubblica, per come ha operato finora, è da bocciare. Quasi la metà  degli italiani, lo dicono i dati Istat, non è soddisfatta della qualità  dell’acqua del rubinetto, al punto che in regioni come la Sardegna, la Toscana, l’Umbria e la Sicilia quasi il 70 per cento degli utenti dichiara di bere quasi solo acqua minerale. «Dobbiamo scegliere: ci conviene continuare a pagare l’acqua minerale un euro al litro, ed avere un’acqua del rubinetto a una lira al litro, che però non possiamo bere, o pagare l’acqua del rubinetto 2 lire al litro e abolire l’uso dell’acqua minerale, dannosa al portafogli e dannosa per la salute?»

Petrella, è così? Davvero la privatizzazione migliora la qualità ? «Tutto il contrario. Un rapporto recente dimostra che 5,6 milioni di francesi non hanno accesso ad acqua potabile di buona qualità  e la massima parte delle località  dove l’acqua non è buona è gestita dai privati. In Inghilterra la qualità  dei servizi è precipitata a livelli molto bassi. Il taglio dei servizi è aumentato del 27 per cento e la democrazia e la trasparenza, che loro promettono, sono fandonie. La realtà  mostra che i privati, rispetto ai gestori pubblici, sono molto opachi, deliberatamente».

Se a partire dalla nuova stagione la cosiddetta società  civile (le associazioni ambientaliste, i consumatori) avrà  molto peso nelle scelte relative alla gestione dell’acqua, perché finora ha taciuto? Perché finora i comitati, le associazioni non sono riusciti a migliorare la qualità  dell’acqua di Ferrara, che è fra le peggiori d’Italia perché viene presa dal Po, che raccoglie i pesticidi e gli scarichi di tutto il bacino del fiume? La privatizzazione risveglierà  i mercati, può darsi, ma come farà  a dare la scossa alla coscienza civile, che non è bastata finora a dare un depuratore a Milano? Davvero il cittadino-consumatore è più coscienzioso del cittadino-contribuente? Più severo e attento nei confronti dei privati che nei confronti del gestore pubblico? Petrella prevede il contrario: «Attraverso la conoscenza esclusiva degli elementi economici, scientifici, tecnologici e manageriali, il privato acquista il potere assoluto di decisione della allocazione delle risorse. Questo fa in modo che il privato sistematicamente falsifichi i dati e l’esperienza francese è questa. In Francia ci sono state centinaia di processi contro gestori che hanno sopravvalutato i costi e sottovalutato i bisogni reali di ammodernamento delle reti». Mentre tenta di recuperare un investimento, il gestore acquisirebbe il monopolio delle conoscenze, che in seguito sono lo strumento più efficace per gestire il sistema idrico. Dall’altra parte lo Stato, ceduto il controllo del sistema e delle competenze che servono a gestirlo, sarà  sempre più costretto a fidarsi dei privati. E gli utenti? Tengano d’occhio le quotazioni delle multinazionali che controllano le acque minerali, si prevedono novità .

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PRIVATIZZAZIONI:il caso delle ferrovie in Gran Bretagna
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CAMPAGNE: il manifesto per l’acqua
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REPORT: Acqua pagata acqua regalata
di Bernardo Iovene
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PANORAMA: Guida alle acque minerali
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IN RETE

I giganti della privatizzazione dell’acqua:

Suez-Vivendi-Ondeo
www.ondeo.com
oppure
http://www.suez-lyonnaise-eaux.fr

Generale des Eaux
http://www.generale-des-eaux.com/

Saur
http://www.saur.com

L’acqua non è una merce. Chi si oppone alla privatizzazione:
Comitato Italiano per il Contratto Mondiale sull’acqua
http://www.cipsi.it/contrattoacqua/

Per aderire al Manifesto mondiale dell’acqua
http://www.cipsi.it/contrattoacqua/home/adesioni/manifesto.asp

Il portale del diritto all’acqua (in francese)
http://www.h2o.net