Che lo abbia fatto nella convinzione assoluta di essere nel giusto, e anzi di riparare a un torto “criminoso” (avere la Rai dato voce, fin qui, anche ai suoi oppositori), è l’ennesima dimostrazione di una visione del mondo faziosa e quasi paranoide.
Sia o non sia un regime quello che l’uomo di Arcore presiede, è comunque un potere ingordo e al tempo stesso insicuro: perché solo l’insicurezza e la paura possono spingere un capo di governo, per giunta forte di un solido consenso elettorale e parlamentare, a sbocchi di prepotenza così maldestri e trafelati.
Profittare di un microfono bulgaro per purgare i palinsesti non è una delle tante gaffes o volgarità alle quali questo viaggiatore ciarliero ci ha abituati (quando va all’estero perde le inibizioni, come gli impiegati in viaggio-premio). E’ uno sfregio che lo stesso Berlusconi infligge a se stesso e al proprio ruolo istituzionale, un’autoumiliazione così stupida e grave da far trasalire anche i suoi osteggiatori più acerrimi, che non hanno nemmeno la tentazione di divertirsi per l’inciampo, tanto pesante e allarmante, questa volta, è l’impressione di debolezza e arroganza (l’una conseguenza dell’altra).
Berlusconi vuole essere amato da tutti, senza eccezione alcuna. Questo demone mina alle radici il suo aplomb psicologico e semplicemente cancella la grande finzione che è l’anima della sua avventura politica, e cioè quella di essere un “moderato”. Di moderato il nostro premier non ha nulla, a partire dalla smodatezza delle sue proprietà e del suo potere e dalla incapacità congenita di tollerare le critiche altrui e, con esse, i limiti del proprio ruolo. Il senso del limite è l’essenza stessa del moderatismo. E un presidente del Consiglio che usa il proprio mandato per regolare i suoi conticini privati con due giornalisti e un comico, oltre a dimostrarsi un poveruomo, dimostra di non avere idea neppure vaga del concetto di limite.
Ha poi provveduto la reggenza Rai, il giorno dopo, a speziare ulteriormente la frittata sconsigliando vivamente allo staff di Fiorello di invitare Fabio Fazio, ospite indesiderato. Neppure la scaletta dei varietà può sfuggire al regolamento di conti in corso. Il particolare sarebbe solo grottesco se non mettesse a nudo l’accanimento mediatico sul quale il berlusconismo ha fondato il suo verbo.
Se non si è mai visto al mondo un premier che comunica urbi et orbi chi può esibirsi in prima serata e chi no, è perché non si è mai visto al mondo un premier partorito direttamente dal televisore. Viene il sospetto che la politica e il potere, per Berlusconi, siano solo un incidente per coronare il suo sogno televisivo: fare l’autore di sei palinsesti completi, cantare finalmente a reti unificate le canzoni di Trenet (povero Trenet), essere circondato e consolato da quegli applausi a comando che solo certi varietà garantiscono. Potersi esibire a rischio zero, al riparo dai fischi, per un pubblico di soli amici e sodali, è cosa che, tra l’altro, non accende la fantasia degli artisti, ma dei guitti in cerca di rassicurazione.
Al di là di ogni considerazione politica, nel fondo di questa patologia della personalità non si riesce a vedere nulla ma proprio nulla di buono e di rassicurante. Un capo che perde le staffe al primo sberleffo di palcoscenico, al primo editoriale ostile, è comunque un pessimo capo, qualunque sia il suo programma politico. E’ un capo debole, vulnerabile, facile preda dei suoi malumori e della sua ansia di vendetta.
Resterebbe da sperare che il suo staff sia sufficientemente munito da metterlo in guardia, supplicandolo di non occuparsi più, almeno in pubblico, delle scalette televisive. Ma c’è da temere che il suo staff sia stato allestito con gli stessi criteri che ispirano il Berlusconi padrone della Rai: fuori dalle scatole chiunque non mi onori e non mi ami.
(20 aprile 2002)