«Bisogna fare una distinzione tra le manifestazioni contro Israele e gli atti di violenza contro gli ebrei. Non tutte le critiche contro il governo di Israele sono indice di antisemitismo. Se gli ebrei della Diaspora hanno il diritto di appoggiare Israele, anche i cittadini musulmani hanno il diritto di appoggiare i palestinesi. La questione centrale è quella della violenza. Nessuna moschea o scuola musulmana è stata (finora) attaccata da bande di ebrei criminali. Ogni Stato democratico è obbligato a proteggere la sua popolazione ebraica, così come è tenuto a proteggere dal razzismo gli immigrati, i musulmani e gli altri».
(Eliahu Salpeter)
Mettere fine al circolo di miseria dei Palestinesi
(di A.B. Yehoshua)
«Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava una risoluzione per la spartizione della terra d’Israele in due stati, lo Stato Palestinese e lo Stato d’Israele, con un territorio equamente diviso. Alla popolazione ebraica, che allora ammontava a 600.000 unità – contrapposta a circa 1.300.000 palestinesi- venivano assegnati ampie fasce del brullo deserto come terra di riserva per l’assorbimento dei numerosi rifugiati ebrei che attendevano ai cancelli. Mentre ci si aspettava un incremento naturale della popolazione palestinese, lo Stato degli ebrei, secondo la comunità internazionale che autorizzava la sua fondazione, doveva dedicarsi alla ricerca di una soluzione al problema ebraico, accogliendo ebrei di tutte le nazionalità , in particolare gli scampati all’Olocausto. Così, nonostante le differenze numeriche, la terra veniva quasi equamente divisa tra i due popoli, con più del 70% della terra fertile assegnata ai palestinesi.
Quando i palestinesi fallirono nella loro guerra d`aggressione volta alla cancellazione dello Stato d’Israele, essi si appellarono alle armate arabe affinché invadessero lo Stato ebraico e lo eliminassero. Eppure anche questa mossa si rivelò fallimentare. Gli ebrei difesero eroicamente il loro territorio, respinsero gli invasori e in alcuni punti conquistarono aree che erano state destinate allo Stato Palestinese. (Lo Stato ebraico acquistò complessivamente circa 6.000 kmq del territorio destinato allo Stato Palestinese).
Nel fervore della battaglia, una minoranza ebraica fu espulsa da quei pochi insediamenti sotto occupazione palestinese, così come molti palestinesi furono espulsi dagli insediamenti degli ebrei. Nello stadio finale della battaglia, zone palestinesi furono intenzionalmente distrutte dall’esercito israeliano e, senza alcuna giustificazione militare, i loro abitanti furono espulsi con la forza al di là della linea d’armistizio tracciata nel 1949, alla fine della guerra.
Quelli che fuggirono e quelli che furono espulsi, sia ebrei che palestines, non possono essere propriamente chiamati rifugiati, ma piuttosto sfollati (nel testo originale: displaced persons, n.d.t.), poiché vi è una differenza sostanziale tra i due termini. Un rifugiato è una persona che è fuggita o che è stata espulsa dalla sua terra patria (nel testo originale: homeland, n.d.t.), una persona dislocata è chi è fuggito o è stato cacciato dalla sua casa ma rimane entro i confini del territorio della sua terra. Gli ebrei che fuggirono o che furono espulsi dagli arabi dalla Città Vecchia di Gerusalemme, dal Blocco di Etzion, da Atarot, Kfar Darom o Beit Ha’arava, e ricacciati in territorio israeliano non furono mai rifugiati ma solo sfollati ai quali vennero immediatamente assicurate delle nuove abitazioni nella loro terra patria. Tuttavia i palestinesi non chiamarono questa loro gente sradicata con il termine di sfollati. A quelle persone attribuirono invece il termine di rifugiati, anche se la maggior parte di loro rimase in terra palestinese e andò a vivere solo a 20 o 40 km dai propri villaggi. Per esempio, gli arabi di Lod e Ramle si trasferirono nell’area di Ramallah, che si trova a 30 o 40 km dalle loro case.
Ci sono stati anche palestinesi che sono fuggiti o che sono stati espulsi dalla Palestina e sono andati in paesi arabi: Egitto, Siria, Libano e Giordania. Tutti questi rifugiati sarebbero potuti tornare perlomeno nella loro terra patria, divenendo sfollati piuttosto che rifugiati, e lì avrebbero potuto costruire le loro nuove abitazioni.
Questo è l’inizio della tragedia dei palestinesi, la cui diretta responsabilità morale appartiene a loro stessi e ai paesi arabi. Persino se, dal loro punto di vista, essi avevano una speranza legittima di vedere il giorno in cui sarebbero stati capaci di eliminare lo Stato ebraico e riprendersi tutta la Palestina –o almeno tornare alle loro case come hanno fatto gli sfollati dal Blocco di Etzion e dalla Città Vecchia- non c’era ancora nulla che impedisse agli sfollati palestinesi di costruirsi case vere. Avrebbero potuto vivere vite normali e rispettabili nella loro terra patria, invece di umilianti e precarie esistenze in miseri campi.
I palestinesi, che hanno elaborato una loro identità nazionale verso la fine del XIX secolo, ancora oggi confondono il concetto di terra patria con il concetto di casa. Non sono i soli. Ci sono israeliani a destra e a sinistra, ma particolarmente a destra, che cercano di dipingere il ritorno dei palestinesi come ritorno alle loro case, e non come ritorno nella loro terra –poiché ciò farebbe pendere una spada di Damocle sullo Stato d’Israele, come se il ritorno implicasse l’inondazione dello Paese da parte di 3 milioni di palestinesi. Questi israeliani stanno semplicemente perpetuando la confusione.
Quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica conquistò parti della Finlandia in una ingiusta guerra d’aggressione, i sovietici occuparono territori e insediamenti dai quali espulsero i cittadini finlandesi verso ovest, all’interno dello Stato finlandese. Bene, quei finnici non erano rifugiati ma sfollati. Si costruirono immediatamente nuove case nella loro terra, non importa quali “sogni di ritorno” nutrissero.
Naturalmente il sogno del ritorno che i sfollati e rifugiati palestinesi alimentano nei loro cuori non è legato a soluzioni politiche o al fatto che essi abbiano intrapreso una guerra d’aggressione contro gli ebrei. Per molti anni hanno continuato a rifiutare il principio della soluzione della spartizione della terra, e fino alla decisione dell’OLP del 1988, molti non riconoscevano Israele. Nel frattempo, comunque, volevano andare a casa, letteralmente. Di conseguenza, si sono condannati ad una vita di umiliazione e povertà ; un’esistenza priva di diritti fondamentali. Ai rifugiati palestinesi in Siria, Libano ed Egitto non veniva concessa nemmeno la cittadinanza affinché non diminuisse il loro clamore per il ritorno.
Ma non v’è alcun ritorno a casa per i rifugiati e i sfollati del 1948, e non può esservi un simile ritorno. Può esservi solo un ritorno in terra patria, e in alcuni casi ciò può essere realmente possibile. Quando i miei amici palestinesi chiedono il diritto di ritorno io dico loro che riporterei tutti i rifugiati palestinesi nelle loro case in Israele a condizione che essi riportino in vita i 6000 israeliani che sono morti nella aggressione bellica del 1948, quando Israele si stava battendo per la sua stessa esistenza in seguito al piano di spartizione delle Nazioni Unite ed era alla ricerca di una coesistenza pacifica.
Alla continua confusione dei palestinesi tra casa e terra patria, si oppone una nazione che porta in sé una distorsione quasi di segno opposto. In tutta la loro storia gli ebrei non hanno mai cessato di vagare di casa in casa, e di cambiare patria nel modo in cui le persone si cambiano d’abito. Dal tempo della distruzione del primo tempio, quando molti degli esuli babilonesi non tornarono nella loro terra, gli ebrei cominciarono ad adottare un approccio che vede il mondo come una grande catena di alberghi. Invece di fare ritorno alla loro patria, in terra d’Israele, e rimanervi, gli ebrei, per ragioni talora esistenziali, talora economiche, preferirono cercarsi luoghi nuovi e più confortevoli, dove potessero stabilirsi con facilità . Perciò non sorprende che gli ebrei abbiano deriso il concetto che i palestinesi hanno di vera terra patria (ma non quello di casa), che si sentano estranei ad esso e che abbiano proposto loro di stabilirsi in un Paese arabo, come se fosse realmente facile scambiare la terra patria con un qualsiasi altro luogo.
I confini devono essere disegnati per separare gli stati, come si è sempre fatto. Ciò che è definito come lo Stato Palestinese deve essere riconosciuto, quando sarà il momento, come la terra nella quale, e solamente nella quale, a tutti quelli definiti palestinesi dalla costituzione palestinese sarà concesso tornare. Gli stati arabi sono responsabili per il perpetuarsi del problema dei rifugiati quanto lo era lo Stato d’Israele quando esercitava la sua sovranità sul territorio- dalla Guerra dei Sei Giorni fino agli accordi di Oslo-.
Tutti, compresi i palestinesi, devono cominciare a risolvere la questione. Innanzitutto bisogna rivolgere l’attenzione ai problemi dei palestinesi sradicati che vivono entro i confini del futuro stato palestinese. In secondo luogo, bisogna intraprendere la costruzione di una infrastruttura rivolta alla soluzione dei problemi degli attuali rifugiati negli stati arabi.
Questo è un processo molto lungo e costoso che deve essere affrontato con ponderazione. Comunque, si troverà di certo un forte sostegno, sia in Israele che all’estero, se tutto ciò diverrà l’obiettivo di uno sforzo mondiale di raccolta di fondi.»