Libertà  di licenziare, arroganza del potere e dissenso popolare

Michele Di Schiena

Nel maggio del 2000 la volontà  popolare si espresse nettamente contro l’
abbattimento dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori respingendo il
relativo referendum. Allora l’on. Berlusconi, per evitare problemi sul
cammino verso Palazzo Chigi, si armò di strumentale prudenza ma non mancò di
dare assicurazione alla Confindustria che da Presidente del Consiglio
avrebbe bruciato quella norma dentro l’attuazione di un piano di interventi
rivolti a liberare il lavoro da vincoli e tutele. E così oggi il Cavaliere,
ritenendo di poter padroneggiare a piacimento gli orientamenti della gente,
mette mano al suo progetto partendo dal disegno di legge collegato alla
Finanziaria 2002 contenente la “Delega al Governo in materia di mercato del
lavoro”.
Il delirio di potenza può fare però brutti scherzi ed ha portato il premier
a sottovalutare la capacità  di reazione di milioni di lavoratori che sta
trovando espressione democratica nella dura opposizione delle forze
politiche e sociali più avanzate, nella mobilitazione dei nuovi movimenti e
soprattutto, come momenti di lotta significativi ed unificanti, nella
manifestazione nazionale di protesta del 23 marzo e nello sciopero generale.
Una protesta che vuole contrapporre alle orchestrazioni propagandistiche del
Governo l’eloquenza dei fatti e la forza persuasiva degli argomenti. E lo
vuole fare partendo dall’analisi dell’art. 10 della Delega il quale, sotto
il titolo mistificante di “misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’
occupazione regolare nonché incentivi per le assunzioni a tempo
indeterminato” mette in cantiere una riforma che prevede la sospensione dell
‘art. 18 per quattro anni, “fatta salva – dice il testo – la possibilità  di
proroghe in relazione agli effetti registrati”, nei casi di emersione dal
lavoro nero, di aziende che assumendo superino la soglia dei 15 dipendenti e
di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. Una
sospensione dunque di lunga durata che, in forza delle progettate proroghe,
sarebbe destinata a protrarsi indefinitivamente provocando un totale
svuotamento dell’art. 18 anche a prescindere dalla sua formale abrogazione.
A dispetto di tutte le cortine fumogene, non può invero sfuggire la forza
espansiva della riforma che, mentre conserva ad esaurimento la tutela della
reintegra per i lavoratori in servizio, elimina tale garanzia per le nuove
assunzioni: quelle di emersione dal lavoro nero che lasceranno comunque i
lavoratori in una situazione di precarietà , quelle comportanti il
superamento della soglia di 15 dipendenti senza effetti sulla stabilità  dell
‘occupazione e, a ben guardare, tutte le altre che nasceranno di certo a
tempo determinato, come effetto della sostanziale liberalizzazione del
relativo contratto introdotta dal D.L. n° 368 del 06.09.01, per essere poi
trasformate in rapporti privi di scadenza ma nel contempo sottratti alla
disciplina dell’art. 18. E sì, perché, a riforma attuata, non vi sarà  un
solo datore di lavoro tanto ingenuo da assumere lavoratori a tempo
indefinito senza farli prima passare attraverso una fase di contratto a
termine. Infatti è proprio questo caso, quello appunto del vantaggio-truffa
costituito dal passaggio dal contratto a termine a quello a tempo
indeterminato, che consuma in danno dei lavoratori l’inganno maggiore perché
apre una vera e propria autostrada alla libertà  di licenziamento con lo
specchietto per le allodole di un contratto nominalmente stabile che
nasconde in realtà  un rapporto più precario di quello precedente.
Diamo allora uno sguardo agli argomenti utilizzati dal Governo e dalla
Confindustria a sostegno della riforma per disvelarne l’infondatezza. Dicono
Berlusconi e D’Amato di non comprendere tanta determinazione nella difesa
dell’articolo 18 assumendo che esso trova applicazione solo in un numero
limitato di casi ma trascurano di considerare la funzione di deterrenza dell
‘istituto della reintegra e, contraddicendosi, ne confermano il valore
civile e l’importanza pratica quando portano avanti con pervicacia la
riforma anche a costo di laceranti conflitti sociali. Affermano poi che la
flessibilità  in uscita favorirebbe l’assunzione dei giovani disoccupati
fingendo di ignorare che i più accreditati economisti escludono un rapporto
di causa-effetto tra tale flessibilità  e l’incremento della occupazione,
come peraltro emerge dal fatto che con l’attuale normativa il fenomeno della
disoccupazione è praticamente assente in vaste zone del Paese.
Ed ancora, sostengono che, in caso di licenziamento illegittimo, verrebbe
previsto un adeguato risarcimento ma non dicono che si tratterebbe pur
sempre di un enorme arretramento perché la disciplina in vigore già  prevede,
oltre alla riammissione in servizio, la corresponsione di tutte le
retribuzioni dal momento dell’illegittimo licenziamento fino a quello della
effettiva reintegra e, soprattutto, non considerano che il rapporto di
lavoro, avendo ad oggetto una prestazione non assimilabile alle merci, si
pone su un piano diverso da quello degli rapporti contrattuali per i quali,
in caso di ingiustificata risoluzione, è prevista solo la sanzione del
risarcimento del danno. Asseriscono inoltre che l’art. 18 sarebbe un vincolo
incompatibile con le esigenze di ristrutturazione delle imprese ma omettono
di precisare che l’attuale normativa prevede la legittimità  del
licenziamento non solo in presenza di una giusta causa e di un notevole
inadempimento del lavoratore ma anche nel caso del cosiddetto “giustificato
motivo oggettivo”, quello cioè determinato da ragioni inerenti all’attività 
produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento.
Assumono infine che nelle altre legislazioni europee non sarebbe rinvenibile
una norma analoga a quella dell’art. 18 senza dire che la Carta europea dei
diritti fondamentali stabilisce all’art. 30 che ogni lavoratore ha diritto
alla tutela (ovviamente piena ed effettiva) contro ogni licenziamento
ingiustificato e che il nostro Paese ha in materia di lavoro dipendente una
storia dolorosamente segnata da sfruttamenti e discriminazioni.
Ma c’è di più e cioè che la progettata riforma dell’articolo 18 si collega
funzionalmente ad un’altra, quella della delega in materia di arbitrato
nelle controversie individuali di lavoro, che punta ad una forte riduzione
del controllo di legalità  da parte del giudice. Il fatto è che la delega per
la riforma dell’art. 18 si inquadra nel piano disegnato dal Libro bianco
pubblicato dal Ministero del Welfare dello scorso ottobre: un piano che va
ben oltre la riforma della disciplina del licenziamento e dell’arbitrato
perché si propone, attraverso una gradualità  di interventi, di operare un
vero e proprio stravolgimento dell’intero impianto dell’ordinamento del
lavoro con l’eliminazione del sistema di garanzie previste a tutela dei
lavoratori e col ritorno ad una concezione servile del lavoro. Un progetto
in aperto contrasto con la Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro
ed impegna le istituzioni a rendere effettivo il diritto al lavoro ed a
tutelare l’attività  lavorativa in tutte le sue forme ed applicazioni in
attuazione della grande scelta democratica volta a rimuovere gli ostacoli
che impediscono di fatto l’eguaglianza dei cittadini e l’effettiva
partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese. L’art. 18 è uno scudo contro le più gravi ingiustizie in
danno dei lavoratori e perciò va esteso anche alle aziende con meno di 15
dipendenti. Esso fa onore alla legislazione sociale del nostro Paese ed ha
una grande importanza simbolica: la sua intransigente difesa assume pertanto
un valore strategico di enorme portata.