L’azione di contrasto alla parcellizzazione del Paese, in corso da decenni, non può ridursi al referendum per la abrogazione di una legge che non introduce né riconosce alcuna maggiore autonomia alle regioni, ma fissa principi, condizioni, procedure per addivenire alle intese che la riconoscono. Bisogna considerare i rischi e gli effetti del referendum: la possibile inammissibilità; la possibile invalidazione per mancato raggiungimento del quorum; il vuoto e il possibile ritorno al passato, peggiore della nuova disciplina, in caso di successo.
La vera partita è la piena attuazione di ciò che di buono ha introdotto la Riforma della Costituzione del 2001: livelli essenziali delle prestazioni (LEP) per rendere effettivi ed esigibili diritti sociali e civili in tutto il Paese e per tutti; costituzione del fondo perequativo a favore dei territori con minore capacità fiscale o con maggiori esigenze. Strumenti concreti di uguaglianza sostanziale e uniformità, garanzia per i territori e i soggetti più deboli. È tempo di disegnare qualche certezza per il futuro, non di difendere l’esistente.
Il tema dell’autonomia differenziata ha messo a nudo, per l’ennesima volta, tutta la fragilità del quadro politico italiano. Un’immaturità di fondo che spinge l’attuale classe politica, con rare eccezioni, a cercare continue conferme e legittimazione presso i propri elettorati. L’ansiosa ricerca della “prestazione” muove da contingenze politiche e, con disinvoltura, passa da una posizione al suo opposto fidando nella smemoratezza degli elettori. Conta il qui e ora, non la linea che traccia una direzione attraverso impegni seri e l’aggiornamento delle idee.
I leader hanno serrato i ranghi di partiti e coalizioni, innescando prove muscolari e chiusure a prescindere, solleticando umori e rinfocolando divisioni tra Sud e Nord che sembravano superati, dispiegando logore e antistoriche bandiere. Gli uni, di un autonomismo senza storia né futuro. Gli altri, un sudismo rivendicazionista, corrente storicamente ben presente nelle classi dominanti meridionali che ciclicamente hanno soffiato sul “vento del Sud” e che di una versione bignamizzata del meridionalismo hanno fatto ora un gadget retorico ed elettorale, ora strumento per la conservazione del potere consentendo di muoversi su un doppio livello: la rivendicazione delle “mani libere” nei propri territori e l’alleggerimento delle proprie incapacità su responsabilità esterne (Stato, UE).
Non sottovaluto la portata politica del referendum abrogativo, ma il disegno di parcellizzazione del Paese non passa solo dalla legge sull’attuazione dell’autonomia differenziata. L’azione di contrasto, quindi, non può ridursi alla sua abrogazione. In questo senso, la campagna referendaria presenta insidie e ambiguità che vanno affrontate o, almeno, esplicitate con franchezza.
1) L’ammissibilità del referendum, si è paventato, potrebbe essere a rischio stante il dichiarato collegamento della legge con il bilancio (su cui è preclusa l’iniziativa referendaria, art. 75 Cost.). Opportuna, quindi, è l’iniziativa delle cinque regioni di richiedere non solo un referendum abrogativo di tutta la legge ma anche uno che abroga specifiche parti della legge. Della circostanza eventualmente ostativa hanno poco da dolersi i maggiori soggetti politici dell’opposizione, in quanto l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni è un tema introdotto per la prima volta nei documenti di programmazione economica nazionale nel settembre 2018, presentata come una “priorità” nella Nota di aggiornamento al DEF (p. 112) deliberata dal Governo Conte I e i relativi disegni di legge sono stati stabilmente dichiarati “collegati alla decisione di bilancio” dai governi che si sono succeduti dal 2019 (p.11) in poi.
2) Il referendum è valido solo con la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto. Considerato il trend di affluenza registrato negli ultimi anni, il raggiungimento di tale quorum è a rischio, soprattutto se nelle regioni del Nord l’elettorato disertasse le urne. Se così dovesse essere, si avrebbero due effetti devastanti: il Paese sarebbe ulteriormente diviso, in modo artificioso; il fallimento del referendum verrebbe letto come la legittimazione, anche da parte dell’elettorato, del disegno autonomistico che avrebbe così una spinta decisiva e irreversibile.
3) Prendiamo ora in considerazione l’ipotesi che il referendum abbia successo. Con il primo quesito deliberato dalle regioni e, identico, quello di iniziativa popolare su cui è stata avviata la raccolta delle firme, il voto favorevole abrogherebbe l’intera legge che, contrariamente a quanto si è fatto passare nell’opinione pubblica, non introduce e non riconosce alcuna maggiore autonomia. La scelta di ricorrere a una legge per fissare principi, condizioni e procedure per addivenire alle intese che riconoscono maggiore autonomia è stata, per certi versi, sorprendente, considerata la paternità. Per nulla scontata, né obbligata, in quanto l’art. 116 Cost. prevede un solo passaggio parlamentare, quello che approva l’intesa fra Stato e Regione interessata. Il referendum, dunque, cancellerebbe la legge ma non la possibilità di attribuire “forme e condizioni particolari di autonomia”, perché fissata dal 2001 nella Costituzione, né il rischio della sua futura attuazione per altre vie, ben peggiori, come quella battuta nel recente passato attraverso negoziati e accordi diretti tra governo e regioni (le intese preliminari sottoscritte da Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e il Governo Gentiloni nel febbraio 2018, poi sviluppate dal Governo Conte I sino agli schemi di intesa definitiva del febbraio 2019 concordati con Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto; procedimento poi interrotto con la fine di quell’esperienza governativa).
4) L’abrogazione totale cancellerebbe i principi, le condizioni, le procedure, il sistema di monitoraggio, che la legge prevede per l’attribuzione di maggiore autonomia. In particolare, la legge non si limita a confermare quanto già previsto nella legge di bilancio 2023 (n. 197/2022), cioè che “l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia … è consentita subordinatamente alla determinazione” dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard), che “costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi” i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale, “per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale”, per “il pieno superamento dei divari territoriali” (art. 1). Puntualizza che, qualora i LEP richiedano maggiori risorse, queste devono essere garantite per tutte le regioni e non solo per quelle che chiedono maggiore autonomia; senza tale copertura, le funzioni restano in capo allo Stato (art. 4). Inoltre, per le singole Regioni che non siano parte delle intese “è garantita l’invarianza finanziaria nonché il finanziamento delle iniziative finalizzate ad attuare le previsioni di cui all’articolo 119, terzo, quinto e sesto comma, della Costituzione”: vale a dire, fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale,risorse aggiuntive e interventi speciali per rimuovere squilibri economici e sociali a favore di determinati territori (art. 9).
Bisogna riconoscere, dunque, che la legge offre un livello di cautele del tutto inedito e affatto banale. Sicuramente di gran lunga superiore a quello offerto da precedenti riferimenti normativi e tentativi di disciplina. Laconicamente, la legge di stabilità per il 2014 (Governo Letta) si limitava a impegnare il governo ad attivarsi entro 60 giorni dalla richiesta di maggiore autonomia avanzata dalle regioni (art. 1, comma 571, legge n. 147 del 2013). I disegni di legge dei Ministri Boccia (2019) e Gelmini (2022), rispettivamente Governi Conte II e Draghi, antecedenti diretti dell’attuale legge, prevedevano il trasferimento di ulteriori e maggiori funzioni alle regioni a prescindere dalla determinazione dei LEP uniformi su tutto il territorio, nel primo caso (v. art. 1, co. 1, lett. e, della bozza di DDL Boccia), e dalla copertura a favore di tutte le regioni, nel secondo caso.
È vero che per 9 delle 23 materie (rapporti internazionali, commercio con l’estero, professioni, protezione civile, previdenza complementare e integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale, organizzazione della giustizia di pace) è possibile chiedere maggiore autonomia senza attendere la definizione dei Lep. Si tratta, però, di materie “non configurabili come prestazioni in favore dei cittadini, perché attengono a funzioni regolatorie e di controllo” o “non associabili alla tutela dei fondamentali diritti civili e sociali” o non esigono “la determinazione di livelli essenziali” (a tale conclusione è arrivato il Comitato tecnico per la definizione dei Lep, composto da una sessantina di esperti e presieduto dall’ex giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese: v. Rapporto, 30.10.2023, p. 7). Per queste materie, comunque, l’autonomia può essere concessa solo “nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente” (art. 4).
5) Il percorso delineato dalla legge è dunque difficile, incerto e comunque lungo. È sufficiente richiamare la difficoltà “di operare una definizione completa, materia per materia, ambito per ambito, di ciascun livello essenziale delle prestazioni” rilevata dal Comitato Lep, tanto da definire l’attività svolta «come un’esplorazione “in terre incognite”, collocate tra previsioni normative più o meno parziali, interpretazioni giurisprudenziali, veri e propri vuoti di disciplina, indicazioni rinvenibili al più solo implicitamente» (Rapporto, 30.10.2023, p. 22).
Il referendum abrogativo di tutta la legge, cancellando le cautele e le garanzie che comunque offre, ci riporta, a Costituzione invariata, alla stessa situazione in cui sono maturate le iniziative autonomistiche e legislative degli anni scorsi. A dare forza a simili preoccupazioni vi sono alcune circostanze sintomatiche. Nessuno dei principali partiti di opposizione (PD, M5S) mette in discussione l’assetto costituzionale definito dagli artt. 116 e 117 della Costituzione, anzi, si difende la possibilità di riconoscere forme particolari di autonomia senza però spiegare quale sarebbe il modo alternativo di attuarla. L’Emilia-Romagna, nella sua deliberazione di richiesta di indizione del referendum, rivendica e conferma la bontà della proposta di autonomia avanzata pochi anni fa (che riguardava 16 materie), con una procedura che ometteva qualsiasi riferimento ai Lep e al fondo perequativo, definiti su scala nazionale; si è peraltro guardata bene dal revocare la preintesa sottoscritta nel 2018, né ha messo in discussione gli esiti del negoziato che ne è seguito (lo schema di intesa concordato del febbraio 2019).
Senza un’esplicita ammissione di un netto cambio di posizione rispetto al recente passato da parte del PD e del M5S, senza impegni politici chiari sul futuro approccio all’autonomia differenziata, l’abrogazione della legge rischia, pur nelle buone e condivisibili motivazioni di tanti altri promotori e dei sottoscrittori, di rivelarsi un salto nel vuoto, senza le garanzie della legge ora in vigore. È necessario tener presente che l’abrogazione referendaria preclude la possibilità di riproporre una normativa di contenuto simile a quella abrogata (divieto ribadito più volte dalla Corte costituzionale). Tale vuoto, in assenza di un’esplicita presa di distanza rispetto all’autonomia differenziata, potrebbe indurre ad attuarla per altre vie, più semplificate e spicce, come le intese perseguite negli anni scorsi.
Risulta allora tatticamente più utile il secondo quesito referendario deliberato dalle regioni che, attraverso l’abrogazione di singole parti della legge, punta a condizionare il trasferimento delle funzioni per tutte le 23 materie alla determinazione dei Lep e dei relativi costi e fabbisogni standard (quindi, anche per le nove materie su cui, in realtà, di Lep non è possibile parlare, come ha rilevato il Comitato tecnico). In tal modo, l’impianto della legge, con le sue condizioni, procedure, garanzie, resterebbe in piedi.
Certo è che il tema dell’autonomia differenziata – agitata come un feticcio salvifico o maligno – non spiega e non giustifica politiche e prassi di governo, inadeguatezze di pubbliche amministrazioni e classi dirigenti, che nei decenni e senza rafforzare alcuna autonomia non hanno allineato i livelli infrastrutturali, non hanno superato la disomogeneità dei servizi ai cittadini, né affrontato lacerazioni sociali e squilibri territoriali, non riconducibili solo alla dicotomia Nord-Sud. Le faglie (sociali, economiche, culturali, strutturali) che attraversano il Paese superano i confini geografici e amministrativi, sono più profonde, più subdole, sono presenti all’interno di singole regioni e anche di territori limitrofi.
È necessaria una presa di distanza rispetto al vissuto degli ultimi 23 anni, durante i quali non si è stati capaci di dare attuazione a ciò che di buono la riforma costituzionale del 2001 aveva introdotto: non si sono individuati i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, Cost.) e i relativi costi/fabbisogni standard e non si è costituito il fondo perequativo a favore dei territori con minore capacità fiscale o con maggiori esigenze (art. 119, Cost.), continuando, invece, a far ricorso ai criteri quali la spesa storica o il costo medio per abitante, di per sé iniqui, penalizzanti per i territori storicamente più deboli e per le amministrazioni più capaci.
La guerra va fatta a questo andazzo, che nega diritti e servizi fondamentali e mortifica ideali democratici e costituzionali – di sinistra, mi permetto – perché LEP e perequazione sono strumenti concreti di uguaglianza sostanziale e uniformità, garanzia per i territori e i soggetti più deboli.
È tempo di disegnare qualche certezza per il futuro, non di difendere l’esistente.
(ENZO COLONNA, luglio 2024)